Per fare l’albero ci vuole la comunità: un’idea di Ulderico Tramacere

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Morfologia della fiaba, Liber Monstrorum, e poi materiali, Nylon, Cellophane e Pluriball sono solo alcuni dei progetti fotografici su cui l’artista Ulderico Tramacere ha lavorato in questi anni. Classe 1975, il fotografo ha dedicato il suo tempo all’investigazione del reale, che ama rappresentare in bianco e nero, riuscendo, tuttavia, a portare in scena tutte le sfumature dei soggetti rappresentati. Dai tronchi mozzati, alle case abbandonate, tutto, attraverso l’occhio di Tramacere, prende vita.

Con discrezione, mi ha concesso di affacciarmi sulla sua storia e, a piccoli passi, su quella di un territorio, che porta in mostra al Museo Castromediano di Lecce con il titolo “Loro. Dalla fotografia al progetto di comunità”, fino al 5 maggio.

Parole sincere, obiettivi nitidi, sguardi profondi.

Cosa rappresenta per lei la fotografia?

La differenza tra la fotografia e tutti i mezzi artistico-espressivi usati in gioventù (poesia, pittura e arti visive in generale) è che la prima, a un certo punto, mi ha concesso di essere indipendente, è subito diventata una professione sin dai tempi dell’Università. Dunque per la mera sopravvivenza ho dovuto confrontarmi con tutti gli aspetti del “mestiere” (dalla fotografia commerciale al mercato dell’arte contemporanea). Penso che quest’aspetto, quello di trovare un modo di poter vivere attraverso il mezzo, sia fondamentale nella vita e nella definizione dell’identità di un artista. Se questo ha fatto di me un fotografo a pieno titolo come soggetto-parte-di-una-società, nondimeno (dal punto di vista esistenziale e artistico) considero la fotografia come “una” delle mie vite.

È lei a scegliere i suoi soggetti o sono loro a scegliere lei?

Penso che la metodologia più adatta a descrivere il processo di “scelta” (sempre relativa), provenga dall’ambito scientifico con la nozione di “serendipità”. Ci può essere un tema, un campo, una domanda di ricerca, ma poi è la ricerca stessa a indirizzare il percorso. Quindi benché si parta da una domanda ben definita, da una scelta di campo intenzionale, il processo di ricerca avviene anche per mezzo di variabili totalmente accidentali, dove fondamentale è la “sospensione del giudizio”, per dirla in termini fenomenologici.

Ulderico Tramacere, Pecora Nera, Arneo, 2014

È questo il segreto?

Penso sia questo il modo onesto e coraggioso di condurre una ricerca, anche quando gli accidenti cambiano il corso delle cose, le direzionano altrove, e tu (ricercatore, artista) ci stai dentro a pieno, con tutto te stesso.

Dal 2013 si è dedicato a immortalare il cambiamento del territorio salentino a seguito della diffusione della Xylella.

Nel 2013 ero a lavoro su “Arneo”, un progetto editoriale su una porzione di territorio salentino, per il quale ho avuto la fortuna di potermi confrontare con un Maestro della fotografia italiana, Ferdinando Scianna. All’epoca la Xylella era all’inizio della sua diffusione, e nel territorio che documentavo praticamente assente. L’epidemia è stata rapidissima e devastante. L’intero paesaggio si è desertificato, privato dell’ombra nell’arco di pochissimo tempo.

Qual è stata la spinta per la creazione del Campo dei giganti?

La mia incredulità e il mio sgomento è stato quello di tanti, non soltanto davanti alla furia impetuosa della malattia, ma anche davanti alla così poca attenzione al tema, all’incuria generalizzata, e alle insufficienti misure adottate, nonché davanti a una serie di azioni ben comunicate ma estemporanee. Ecco, il Campo dei Giganti nasce sia dal fatto che non mi sia mai totalmente identificato pienamente e solo come fotografo, ma anche (nel periodo del Covid) l’aver trovato una corrispondenza così forte tra l’epidemia umana e quella fitosanitaria.

Il Campo nasce da questa dedizione?

Il Campo ha richiesto una totale abnegazione alla causa, implicando uno sforzo fisico e relazionale che fino a quel momento non avevo mai sperimentato. Nasce nel 2020, a piccoli passi, quello che è un intervento sul paesaggio ma anche un progetto di comunità, che vuole coniugare memoria e futuro e agire nel profondo di un dramma ecologico (come ecologia delle relazioni) tutto contemporaneo, che oltrepassa la stessa situazione locale e rappresenta istanze universali.

Cosa si nasconde dietro la parola “Campo”?

Il Campo è un modo di “stare-dentro” alla trasformazione della realtà, vivere il dramma e pensare in maniera proattiva a soluzioni condivise. Se il Campo nasce come atto di pietas, di cura e di dedizione assoluta, tenta di sollevare un sentimento di sana indignazione, che sia realmente generativa.

Passando alla mostra “Loro. Dalla fotografia al progetto di comunità”, visitabile fino al 5 maggio presso il Museo Castromediano di Lecce, chi sono “Loro”?

“Loro”, richiama l’epiteto di “oro verde” dato al frutto dell’ulivo, l’olio – ricchezza del Sud, simbolo mediterraneo, e di un Mediterraneo che è tutto a rischio, in pieno stato di emergenza su tutti i fronti. Nello stesso tempo, il pronome plurale “loro” è specchio dell’emarginazione sociale e culturale che l’ulivo, l’ulivicoltura e la stessa identità mediterranea subiscono in un presente che, in profondità, si mostra senza futuro.

Il senso di distacco che la parola “Loro” implica, riferito agli agricoltori e al dramma della Xylella, lo percepisce anche in lei? O si sente vicino alla tragedia vissuta dalla sua terra?

“Loro” sono i nostri ulivi, anche loro traditi prima dall’incuria e dalle “allettanti promesse” della modernità, e poi sterminati dal flagello della Xylella Fastidiosa, ancora oggi oggetto delle più svariate operazioni (dal greenwashing ai reimpianti intensivi). Ho inteso “Loro” come specchio di ciò che siamo “noi”, e il distacco del pronome si annulla nel momento in cui si toglie “il velo di Maya” delle copertine patinate e di un Salento solo-turistico, dipinto attraverso il marketing territoriale. L’auspicio è quello di portare all’attenzione in maniera esplicita e allo stesso tempo simbolica il riflesso di un’urgenza, che possa essere in qualche modo generativa di una presa di coscienza.

Nonostante si tratti ormai di soggetti inanimati, gli ulivi fotografati sono capaci di trasmettere emozioni, quasi si trattasse di volti umani. Da cosa dipende? 

Probabilmente proprio da quella drammatica analogia tra la sorte naturale e quella umana. Analogia che è lapalissiana, che è messa a fuoco proprio perché la “modernità” ha reciso quel legame ancestrale tra l’essere umano e la natura, che però il mezzo artistico è in grado di re-veicolare, a livello simbolico e proiettivo, in maniera potente. “Loro” è specchio della condizione umana, e credo dai primi feedback della mostra che questo sia abbastanza evidente e forte.

Cosa spera per il futuro?

Spero di avere le forze e l’aiuto di chi vorrà continuare ad esserci nella dedizione e della costanza nel prosieguo delle attività del Campo dei Giganti, che fondamentalmente si oppone al “disincanto fatalista” davanti alle tragedie che stanno attraversando la nostra contemporaneità.

Sarà solo?

Con non poche difficoltà ho abbinato quell’amata solitudine di stare dietro l’obiettivo alla costruzione di alleanze e relazioni, cercando di interpretare bisogni e urgenze collettive. Ho imparato lo sforzo fisico di stare a contatto con la terra, condividendo e reinterpretando pratiche del mondo rurale, confrontandomi con la durezza della terra e il tempo ciclico della natura. Ecco, il progetto coincide con la speranza che quest’azione di Cura continui a essere supportata da un bacino ancora più ampio di sodali, che condividano nel profondo l’urgenza di una “transizione” realmente ecologica, in un progetto collettivo, condiviso, duraturo.

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