Giò Tirotto, “il design deve comunicare, non essere egocentrico”

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C’è un solo designer italiano ad aver disegnato una sedia per Ikea, si chiama Giò Tirotto e quest’anno presenta due nuovi progetti alla Milano Design Week. 

Giò ha un DNA da designer, studia attentamente i dettagli e cura molto il rapporto con l’utente, ma sa essere anche poetico e i suoi progetti hanno sempre un messaggio da comunicare. Il suo è un design semplice ed essenziale, dove ogni elemento è pensato e dove la forma segue sempre la funzione.

In queste folli giornate milanesi del Fuorisalone, sono andata a trovarlo nello showroom di UNOPIÙ in via Pontaccio per conoscere meglio il suo approccio minimale e artistico al design.

Ph Matilde Bettati

Cosa presenti al Salone del Mobile 2024?

Presento due poltrone per outdoor, una in fiera per MDF Italia che si chiama Peggy, l’altra al Fuorisalone nello showroom di UNO PIÙ che si chiama Nanda. Inoltre nello showroom di Malerba viene esposto per il secondo anno consecutivo il progetto Super Random, che nel 2023 ha vinto l’ Archiproduct Design Award nella categoria prodotti per ufficio.

Una volta hai detto che eri indeciso se fare il pittore o l’ingegnere e poi hai fatto il designer, forse è per quest il tuo lavoro attraversa tutti i campi della progettazione. Cosa non deve mai mancare in un tuo progetto?

Nei miei prodotti non deve mai mancare il messaggio. Non deve essere per forza un messaggio etico-morale, può essere anche ironico, politico,  tecnologico… secondo me il prodotto deve dire qualcosa di nuovo, non deve ripetersi, essere egocentrico, deve essere comunicativo, deve raccontare qualcosa di nuovo.

Come nascono i tuoi progetti?

Non parto mai disegnando una forma, sono in grado di disegnare un prodotto nuovo se ho una motivazione per farlo. Le mie idee nascono sempre da una ricerca. Ricerca vuol dire rendersi conto di quello che accade intorno a me nei vari campi, non solo in quello del design, ma anche in quello dell’arte, in quello sociale, eccetera. Questa ricerca immaginala come un moto rettilineo uniforme, nel mio studio si attiva una ricerca perenne dalla quale si attinge di volta in volta per produrre nuove idee.

C’è un designer ti ha fatto innamorare di questo lavoro?

C’è ne sono due: uno è Castiglioni perché mi hanno folgorato la Arco e la Parentesi, l’altro Paolo Ulian che una volta ha disegnato un paio di infradito con la suola con scritto “FOLLOW ME” e sembrava che in spiaggia fosse passato Gesù.

Questo è molto Droog

Si infatti credo che fosse un prodotto Droog o comunque era quello il periodo in cui lui ci lavorava.

A proposito dell’esperienza Droog, mi chiedo come mai i giovani designer olandesi, mi è capitato di parlare con alcuni di loro al Fuorisalone,  non sanno chi sono i Droog.  È incredibile! Sai dirmi cosa è successo? 

Purtroppo devo confermartelo, io lavoro con giovani bravissimi che hanno un approccio sperimentale alla Eindowen ma non sanno chi sono i Droog!  È come se al liceo non si studiassero i classici, secondo me sbagliano la scuola, l’accademia, l’università,  non è possibile uscire da una qualsiasi scuola come designer senza conoscerli. 

Ti emoziona di più sapere di essere con un tuo pezzo a basso costo  nelle case di tanti o nelle case di pochi con una serie limitata?

Sicuramente mi emoziona di più essere nelle case di persone di tutto il mondo con una seggiolina, mi piace l’idea di poter essere all’interno delle fotografie delle persone con la mia sedia Ikea. Se il tuo prodotto può essere acquistato dal più alto numero di persone possibili vuol dire che va nel più alto numero di case, l’idea di un design ‘democratico’ e accessibile è ciò che  ideologicamente mi interessa di più. Poi ci sta che tiri fuori un prodotto in serie limitata che potrebbe essere anche un manifesto della tua nuova concezione di progetto …anche Mendini, dopo la poltrona Proust, ha fatto dei cavatappi favolosi che sono entrati in più case della mia sedia Ikea!

Mi piace questo tuo approccio  ‘democratico’  e al tempo stesso ‘fluido’ al design, quindi hai fatto anche pezzi in serie limitata?

La cosa più importante che ho fatto in serie limitata è stato il mappamondo Coexist con la galleria Secondome. C’è stato un periodo in cui ero Giò quello del mappamondo, il vetro mi ha permesso di misurare anche il tempo oltre che lo spazio, aver cambiato il materiale mi ha permesso di dare una accezione artistica al progetto.

Tra i tuoi progetti artistici uno dei più interessanti è 208, quello con le boe luminose curato da Maria Cristina Didero nel 2020. Raccontaci come è andata.

Maria Cristina Didero mi ha chiamato dicendomi “Gio ti va di fare una installazione luminosa in una piazza a Rimini nel periodo natalizio?”, arrivo e la piazza e sull’acqua! Aveva tralasciato questo piccolo dettaglio. Era il periodo del COVID e il problema era anche concepire un progetto che fosse frequentato in un modo diverso dalle persone, la situazione era drammatica e la luce secondo me era l’elemento che  poteva dare un conforto alle persone che si fermavano a guardare questa piazza sull’acqua e magari rimanevano lì a chiaccherare per un po’ .

Hai disegnato poche lampade, come mai?

Ne faccio poche di lampade perché dico sempre che le idee che ti vengono con le lampade non tornano più e quindi non vanno sprecate. 

Tanti anni fa né hai fatta una a forma di scala per Seletti,  poi hai fatto un porta zampirone che è concepito come un porta incenso, perché in effetti lo zampirone non è altro che un incenso che brucia! Com’è nato quel progetto?

La prima volta che ci siamo conosciuti io e Stefano Seletti sono andato in azienda e abbiamo chiacchierato tantissimo, poi è arrivato il momento del brief, mi sono alzato e ho scontrato lo zampirone per terra, a quel punto l’ho guardato negli occhi e gli ho detto “Stefano ce l’ho!” e lui ha risposto “hai una settimane di tempo per farlo”.

Sono andato a casa e non ho fatto altro che prendere il piattino che mia nonna ha sempre usato per bruciare lo zampirone, bucarlo e inserire al centro una pinza in acciaio, così che fosse lavabile in lavastoviglie, il progetto era finito.

Ph Matilde Bettati

Hai fatto anche interni, com’è stata la tua esperienza con Carlo Cracco per il ristorante Carlo e Camilla in Duomo?

Un esperienza bellissima che mi piacerebbe rifare, ho imparato tanto da Carlo Cracco, auguro a tutti di lavorare con persone così, è proprio un maestro, perché ha la capacità di ascoltare e di lavorare insieme ad un altro professionista. Io e Carlo passavamo anche mezz’ora a parlare solo di una mensola, lui è un vero progettista e quando ci siamo messi a guardare lo spazio insieme mi ha detto che voleva una cosa più rock. A quel punto con il mio studio abbiamo cercato di portare all’interno del locale la città, lo abbiamo rivestito di un’infinità di metri quadri di tapparelle, quelle in plastica normalissime, e poi ho mischiato i colori e i gradienti per farle dialogare con le opere d’arte di Eron. 

Se dovessimo salire su una navicella spaziale per lasciare questo pianeta  (un’ipotesi  purtroppo non più tanto fantascientifica), quali oggetti di design (max 3) porteresti con te?

Porterei tre lampade: la Arco e la Parentesi di Castiglioni, la Mayday di Grcic.

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