Metti una sera a cena con JR, parlando d’arte e ragionando sull’amore

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La monumentalità è la cifra fondante dell’arte di JR al quale la definizione di street artist sta stretta, stretta come una camicia il cui bottone del collo non si chiude neanche se ti aiutano. Fa le cose in grande quest’artista quarantenne, francese, che si staglia, nel panorama artistico internazionale, perché sembra aver individuato il giusto cocktail al quale affiderei questo nome: “Unicità”. Una cosa è certa: lui, come pochi altri – e ci riferiamo a Jeff Koons ad esempio o ad Anish Kapoor o, ancora, Damien Hirst – non sposa il famoso motto di Ernst Friedrich Schumacher, “Piccolo è bello”.

No, per J.R., grande è bello, bellissimo, anche perché, in epoca di droni – invenzione umana abbastanza magica (ma forse non ancora sufficientemente “rated”, come dicono gli anglosassoni) già ultra utilizzati, nel bene e nel male – la fruizione di un’opera d’arte concepita per esterni riceve in dono un nuovo punto di vista che presuppone anche una innovativa visuale per ammirarla. Se JR stende migliaia di ritratti su un disordinato slargo di una favelas brasiliana quale è – se non il drone – il modo migliore per avere una visione d’assieme dell’opera? Per questo non possiamo per lui parlare di street art ma piuttosto land art o, come si è lui stesso definito, “attivista urbano”.

Attraverso le sue opere sembra dire: “datemi uno spazio e vi solleverò il mondo” ed è quello che ha fatto alla Stazione Centrale di Milano la quale, già di suo, è un monumento impressionante di cemento e orpelli (chissà quanta montagna è stata scavata per costruirla) e lui cosa fa? Cerca di farci rivedere (o sognare?) quello che questo spazio era all’origine, una sorta di deposito di materia grezza trasportata all’epoca chissà come dalle montagne apuane in attesa di essere lavorata e che diede modo, a centinaia di operai, di costruire l’immenso blocco concreto che oggi – e fino al primo maggio – ti accoglie sul piazzale principale con questo abnorme oggetto di meditazione che JR ha realizzato in collaborazione con Moncler che, a sua volta – e non sarà un caso – ha trasportato lo stile monumentale anche nella moda perché – per fare un esempio recente di cui abbiamo parlato su questo giornale – far sfilare 200 modelli, di notte, sulle alture di Saint Moritz, sfidando il freddo e magari anche i lupi, ha un che di gigantesco che poi deve essere il fil rouge che ha legato l’artista JR al patron di Moncler, Remo Ruffini, che è parte in causa di questo sprazzo d’arte, di sorprese e, soprattutto, di stupori diversi che attraversano in fila indiana la piazza come un mantra e che proseguono all’interno della Stazione in cui è allestito il prolungamento ideale di quanto già ci coglie e ci colpisce all’esterno.

Ispira il dialogo” c’è scritto sul totem che descrive l’opera di JR che si intitola La Nascita; le opere di questo artista dunque, ispirando il dialogo – ma io aggiungerei che aiutano anche a formulare domande che magari possono rimanere inespresse – ma che sicuramente scavano dentro chi guarda, anche perché la peculiarità di JR ha come riferimento un benchmark fondamentale, un punto inarrivabile di sacrificio che forse l’artista francese non conosce perché i tempi sono cambiati e le grandi opere sono più ideate che costruite perché le botteghe dei grandi artisti contemporanei vivono di decine di collaboratori che ricordano le formiche operaie ma che, come orizzonte e similitudine, non del tutto impropria, non può sfuggire: la Cappella Sistina è la monumentalità fatta arte e non solo per le dimensioni ma per il tempo necessario a renderla così come la vediamo oggi, cioè immortale, e così non escludo che JR, mentre pensa alla prossima enorme opera, non si rifaccia necessariamente al lavoro di Michelangelo ma anche – ci troviamo ovviamente più in basso nella scala dei valori ma come landmark funziona sempre – al Monte Rushmore, nel sud Dakota, dove i volti dei primi presidenti americani sono scolpiti nella pietra in dimensioni gigantesche su progetto di Gutzon Borglum, danese, col pallino dei monumenti il quale, prima della seconda guerra mondiale, portò a termine questa bizzarra ma famosissima installazione, e io credo che tra lui e JR ci siano delle affinità nel modo di pensare in grande.

L’arte di JR, che può essere interattiva – ma nel senso classico – cioè vissuta per davvero, toccata, e non online, non può passare inosservata e per questo, trovandomi quasi a tu per tu con lui, in una mirabile e spettacolare cena offerta da Remo Ruffini in uno degli antri ormai inerti della stazione e riadattato a spazio conviviale per un momento unico, con JR guest d’onore, non ho avuto domande da porre, perché le risposte le già avute tutte osservando, toccando e immergendomi nella sua opera e forse sparendo agli occhi degli altri come Harry Potter quando entra nel binario 9 e ¾.

Non sono d’accordo con alcuni titoli di pezzi dedicati alla mostra che dicono, tipo: “L’opera d’arte di JR fa rinascere la Stazione Centrale di Milano”. No, non la fa rinascere, ma – più semplicemente – ci racconta come è nata, che è storia diversa. Le stazioni, come gli aeroporti, sono “non luoghi”, secondo la definizione di Marc Augé. Posti dove le persone non hanno volto. Ecco, per contrastare questa apolidia – che prima o poi tocca a tutti perché tutti viaggiamo e in questi luoghi siamo “sempre in transito” – ci vuole un artista come JR per riportarci sulla terra o comunque recuperare il passaporto sperduto.

C’è tanta idea in quest’opera e quando sento JR dire ”è la prima volta che faccio un lavoro così impegnativo. La piazza è enorme, la stazione è imponente e alta 15 metri, al centro c’era un ascensore che rendeva difficile ideare il ‘trucco visivo”’ Così abbiamo cambiato la tecnica”, ripenso ancora alla Cappella Sistina o al Monte Rushmore anche se contrariamente a queste opere la sua verrà smontata il primo maggio ed è all’arte fotografica che ci dovremo affidare, e a Instagram che tutto ci ri-racconta.

Ma non è finito il mio racconto perché, come dicevo, si attraversa l’opera ma poi si entra in stazione e qui – ancora storditi da Nascita – e ancora per pochi giorni, sempre Moncler – che evidentemente ha un rapporto affettuoso con l’artista francese – propone una mostra immersiva dal titolo “Invitation to dream”, mostra dedicata al tema del sogno.

Un progetto curato da Jefferson Hack, filmato e fotografato da Jack Davison. E così, se chi deambula nella piazza della Stazione di Milano attraversando l’opera di JR riceve delle frecciate al cervello come scagliate da un Cupido che vuole farti innamorare dell’arte e magari a quel punto sta per rilassarsi e pensare al treno da prendere… e no, ecco che sboccia ciò che potrebbe essere un codino inaspettato – an invitation to dream – almeno per me che, alla fine di una cena che mi ha fatto pensare a quelle di re Artù in castelli spersi nel verde della Britannia ecco, ma non so perché esattamente, mi viene in mente questo coretto che – staccato dal resto della canzone in quanto arriva dopo una pausa che lascia col fiato sospeso – ad una magia dei Beatles: “And in the end The love you take is equal to the love you make” (E alla fine l’amore che prendi è uguale all’amore che dai).

Questo il modo migliore per fruire dell’arte: prendere ma anche dare e, nel caso di JR e di chi lo sostiene, questo è il concetto base di una vita dedicata al pensiero artistico.  

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