El Anatsui alla Tate Modern: l’arte è una forma di magia

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Chissà cosa potrebbe venir fuori dal continente africano se gli abitanti dello sterminato territorio potessero occuparsi d’arte anziché, prevalentemente, di procurarsi cibo ed evitare di finire in mezzo a guerre locali, violente e striscianti, infinite e, come tutte le guerre del mondo, illogiche.

Me lo chiedevo giorni fa visitando la meraviglia che è la Tate Modern di Londra dove, nella sala delle turbine – cioè quell’immenso spazio alla base del building, una sorta di piazza coperta che fa girare la testa per quanto vertiginosa e dal sapore antico –, è stata allestita un’esposizione che si coniuga perfettamente con le dimensioni dello spazio perché a sua volta gigantesca (non è la prima volta che ciò accade alla Tate) in cui un artista africano ha installato qualcosa che lascia il segno in chi visita.  

El Anatsui, artista ghanese, lavora da sempre con materiali poveri, tra i quali argilla e legno, creando oggetti artistici ispirati dalle credenze metafisiche del suo paese. Nel tempo è divenuto famoso per gli immensi arazzi, sorta di gigantesche tende realizzate con materiali di recupero (lattine di alluminio, creta, tessuto, legno, multicolori tappi corona, schiacciati, appiattiti, ricuciti e altri materiali) unendo così antiche tradizioni e modernità, sostenibilità e citazioni dello spreco contemporaneo che a lui è funzionale per mettere in piedi installazioni di forte impatto. El Anatsui è sicuramente il maggior artista africano vivente e non è un caso che la Tate Modern lo abbia celebrato con questa mostra che lascia a bocca aperta; soprattutto ci si domanda come l’artista abbia potuto far pervenire a Londra questi immensi tendaggi di riciclo creati direttamente nel suo laboratorio africano.

Io effettivamente me lo sono chiesto che tipo di mezzo possa aver caricato questi pezzi che sono indivisibili e, secondo quanto dicono alla Tate, arrivati già integri e non rimontati in loco. Le dimensioni sono tali che fanno pensare a trasporti militari, quegli aerei dalla pancia vuota e immensa dai quali vediamo scendere jeep e carri armati, oltre che truppe pronte alla guerra. Ma siccome c’è della magia in queste opere, decidiamo pure di non pensare a questo e riflettere solo sul senso che ispirano. Credo che in Africa non sia difficile procurarsi i materiali da riciclare. Tappi di bottiglia e alluminio, il senso del moderno che assale il primitivo. Tessuti ritrovati chissà dove per dare agli “arazzi” un impensabile senso del movimento, considerando il peso della struttura eppure – anche avvicinandosi alle opere, tre nel complesso –, l’effetto permane e si è come trasportati dal vento africano, caldo e costante, ad osservare queste meraviglie che trasformano il rubbish in arte.

La luna, la vela, la terra e il muro sono i riferimenti che El Anatsui vuole farti cogliere mentre visiti e, avvicinandosi alle opere, si notano i brand internazionali sui tappi che ci parlano della vita quotidiana e del viaggio infinito delle merci riciclate. È così che l’artista africano lega l’antica artigianalità africana alla modernità della società dei consumi. Come se queste opere fossero l’annuncio ufficiale che l’Africa è ormai collegata al resto del mondo proprio dai prodotti, dalle merci, da ciò che in sostanza unisce davvero gli uomini che vivono la terra in questo secolo. ù

È un’opera d’arte in tre atti, dice El Anatsui, che fa aprire le note della presentazione con queste parole: “Ciascun materiale ha le sue proprietà, fisiche e perfino spirituali”. E qui il segreto della sua arte che si fonda sulla materia smaterializzata, triturata, resa polvere che poi viene riutilizzata, alla quale – con il suo soffio d’artista ispirato – viene data nuova vita. Fedele, evidentemente, al motto di Lavoisier: “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”, El Anatsui sembra essere un apostolo del fisico francese. E come dimenticare, o meglio, come non pensare, al fatto che il colonialismo ha mostrato proprio in Africa i suoi lati peggiori e degenerativi? Poniamo che il colonialismo sia un virus, quanti anni ci sono voluti per estirparlo e – diciamocelo – lo è davvero, oggi, (estirpato) del tutto? Forse è solo mutato.

Dentro queste tele dell’artista quasi ottantenne è racchiuso un racconto potente, triste e violento allo stesso momento, di rivincita ma anche di difesa delle proprie tradizioni. L’uomo è nato in Africa, sembra dirci, non dimenticatelo mai. Ecco perché, all’inizio di questo pezzo, mi chiedo se l’esempio di El Anatsui possa essere seguito da giovani artisti africani; ecco perché sono grato al regista Matteo Garrone che, nel suo ultimo film, Io capitano, scopre attori pazzeschi presso la polverosa accademia di recitazione di Dakar e li trasporta sulla soglia dell‘Oscar, a Hollywood, regalando loro una favola, ecco perché, osservare con attenzione l’opera Behind the Red Moon, apre squarci mentali ai quali non si riesce a resistere, pensieri fulminanti che ti arrivano e che – anche volendolo- non riesci ad evitare poiché questi sono inciampi visivi che l’artista ha “costruito” perché fossero inaggirabili. 

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