Le aragoste “pop” di Philip Colbert al MANN

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L’artista britannico Philip Colbert, si confronta con la mitologia classica esponendo nell’atrio del Museo archeologico nazionale di Napoli, ventisette opere tra pittura e scultura. 

La mostra, intitolata House of the Lobster, è curata da BAM! Eventi d’arte, interessante progetto di curatela fondato nel 2022 con lo scopo di promuovere l’arte d’avanguardia ed in quest’ottica le due cofondatrici, curatrici dell’evento, portano le aragoste di Colbert in giro tra musei, palazzi istituzionali e spazi urbani, descrivendo lo stile Iper-pop dei suoi lavori nella biografia introduttiva, prendendo in prestito la definizione inglese Hyperpop dall’ambito della musica elettronica in voga tra il 2010 e il 2020, che tendeva a cartoonizzare in maniera esuberante le melodie. 

In Colbert c’è tanto di “iper”, la tendenza a rappresentare un cosmo ludico è la componente più evidente, la sua palette cromatica rimanda sì al pop, ma anche a quel vizio diffuso tra gli artisti visuali di questa generazione nel rappresentare habitat corrosi dalla devastazione chimica, accendendo luminescenze e fluorescenze acide ed è Ipercromia spinta ai massimi livelli nei suoi lavori.

In questo contesto tra brodo primordiale e atmosfera post-nucleare, solo questi infantili esseri di plastica sembrano poter vivere senza avere il bisogno fisiologico di immettere ossigeno nel proprio organismo.

L’aragosta impera in questo universo acido-ludico abitato da astanti che hanno l’aspetto rotondo dei giocattoli di plastica degli anni ottanta, fattore che potrebbe determinare un approccio disinteressato nella contemplazione iconografica, ma la cifra stilistica, le scelte tematiche e la qualità tecnica dei suoi lavori impongono al fruitore di soffermarsi a verificarne la non scontata banalità, sia dal punto di vista narrativo che dal punto di vista della perizia nell’utilizzo del disegno e della pittura. 

Lo spessore umanistico che c’è dietro questa componente ludica di Colbert, laureato in Filosofia, è palpabile e gli consente di narrare con totale disinvoltura le gesta del mondo umano sostituendo quest’ultimo con il mondo fantasy ludico-animale, allontanandoci per un attimo dal nostro crudele vissuto per poi restituircelo come la rappresentazione di un mondo che imprime un forte senso di confortante tenerezza, in un mondo abitato da soli giocattoli, con l’aragosta al centro della narrazione e alla quale tuttavia è imposto il peso dell’esistenzialismo umano, tra conflitti sanguinari, cataclismi naturali e lotte per il potere e la sopravvivenza. Si direbbe tutto molto fedele alla realtà, non fosse per i protagonisti di questo realismo magico che si presentano ai nostri occhi mediante una tecnica pittorica raffinatissima, tanto da far credere a chi contempla le tele di essere difronte ad una serie di stampe ad alta definizione, ma è tutto colore ad olio e racconto nutrito da una profonda conoscenza dei fatti storici. 

Colbert si confronta con il mito classico dell’aragosta e del polpo, suo naturale e temuto antagonista, proprio come descritto nella Naturalis Historia di Plinio il Vecchio, in cui si narra che “l’aragosta teme a tal punto il polipo che, se lo vede affatto vicino, arriva a morirne”, una teoria suffragata dall’antecedente lavoro delle  maestranze romane del I secolo a.C. nel realizzare i mosaici della villa in cui è stata rinvenuta una raffigurazione del mollusco, che avvolge in una stretta feroce il crostaceo che tenta di liberarsene, metafora della sofferta lotta alla sopravvivenza contro l’ineluttabilità della fine che il polipo simboleggia. 

La presenza di questo frammento di mosaico originale tra le opere ipercromatiche esposte da Colbert suggerisce che è questa la chiave di lettura di tutta l’opera pittorica del ciclo offerto ai nostri occhi in grandi dimensioni, interrotto da qualche scultura in marmo e in bronzo colorato in cui l’aragosta prende il posto talora di Teseo, talora di Perseo oppure da emulazioni dei grandi cicli pittorici che affrontano i temi storici delle battaglie, proprio come nella villa pompeiana, dove fu rinvenuto un mosaico raffigurante la Battaglia di Isso che qui diventa After Battle of Issus Mosaic, là dove Alessandro Magno è rappresentato dall’Imperatore lobster e Dario III di Persia è un essere alieno mascherato e dall’acconciatura punk, che cavalca insieme al suo esercito di umanoidi una mandria di cavalli playmobil rossi. 

Degno di nota è il meraviglioso The Last Day of Pompeii, emulazione iper-pop dell’omonima opera dell’800 di Brjullov, in cui va in scena l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., la stessa eruzione che causò la morte di Plinio il Vecchio che all’epoca era a capo della flotta romana a largo di Capo Miseno e che si sacrificò per salvare alcuni suoi amici stanziati a Pompei, e guarda caso al centro della scena dipinta da Colbert scorgiamo un soldato romano aragosta portare in braccio un figurante in tonaca civile anch’egli aragosta, è sembra essere proprio la storia di Plinio. La drammaticità del momento è perfettamente leggibile nella concitazione dei gesti delle chele alzate al cielo e nella preoccupazione che condiziona i movimenti della folla di aragoste in un vagare smarrito verso un destino senza speranza. L’esplosione cromatica provocata dal vulcano è impressionante, dai toni elettrici azzurri e ocra accesi dei gas vulcanici, che esaltano la pigmentazione rossa dei carapaci in agitazione sul basso della tela mentre il paesaggio classico intorno a loro collassa in frantumi.

Una breve nota meritano le statue in bronzo dai toni netti e primari, un lavoro nello spazio che richiama un’altra tendenza molto in voga in questi anni, l’utilizzo eclettico dello spazio tra scultura, disegno e pittura, con innesti dal mondo reale, come marchi, icone, brand di prodotti di largo consumo. A tratti ricorda il lavoro del più anziano Luigi Ontani nella costruzione di ambienti (Stanza delle similitudini) o, ancor di più, il lavoro totale di Joseph Klibansky, suo contemporaneo, scultore ma anche disegnatore e pittore che riempie gli ambienti delle sue enormi sculture tra scimmie ed astronauti di svariati metri ma apparentemente leggeri come piume fra tele iconiche, ricche di simbologia millenial tra bianchi e neri che evocano le scritte sulle pareti del bagno di un liceo (360 degrees of art).

Per ciascuna delle opere esposte da Colbert al MANN si potrebbe raccontare il confronto fedele con la storia, soffermandosi ad ammirare anche la meravigliosa epifania cromatica, fatta di riflessi, trasparenze, pieghe, ombre, inserimenti di dettagli della vita contemporanea, come i cursori del mouse o i warning banners che bloccano le schermate del pc in A.I. Battle Scene II, tutto meticolosamente dipinto con piccole pennellate, ma il rischio di riempire pagine di parole che non renderanno mai l’idea della bellezza esplosiva di questi lavori è alto. Si consiglia quindi in maniera più che convinta di non lasciarsi scappare la possibilità di osservare l’opera di Philip Colbert da vicino, anima inquieta che cerca la tranquillità nella soluzione ludica, in un continuo scambio dicotomico tra esistenza e sopravvivenza. 

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