Dalla marginalità al centro: l’arte queer protagonista alla Biennale di Venezia (pt. 1)

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Iniziamo a conoscere gli artistə presenti alle Corderie e nel Padiglione Centrale della 60esima Esposizione Internazionale d’Arte.

La Biennale 2024, che fra un mese aprirà i battenti, è già stata definita come una “celebrazione dello straniero, del lontano, dell’outsider, del queer e dell’indigeno” e del resto non poteva essere altrimenti: il suo curatore, Adriano Pedrosa, brasiliano classe 1965, non è solo il primo sudamericano nella storia dell’istituzione lagunare a ricoprire questo ruolo, ma anche il primo a dichiararsi apertamente queer. La sua nazione d’origine e soprattutto Rio de Janeiro, la città che gli ha dato i natali, sono da sempre un crocevia di culture: quella portoghese dei colonizzatori e poi quella italiana, giapponese, libanese e le moltissime diaspore africane. Un crogiolo in cui ben si rispecchia Venezia, porta tra Occidente e Oriente: in passato punto di ritrovo di mercanti e oggi di turisti. E così il titolo “Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere”, scelto per il sessantesimo appuntamento della manifestazione, diventa il manifesto dell’”estraneo”, dello “strano”, dell’”altro da sé”, dimostrando un’etimologia affine al termine “queer” che, secondo l’Oxford Dictionary, è un aggettivo da tradursi con “divergente, non in linea retta”.

Un fram di un video realizzato in 3D dal designer Pepapuke in cui si vede l’artista queer Manaura Clandestina con il cantante brasiliano Mustta.

L’artista queer si muove da sempre all’interno di sessualità e generi diversi, venendo spesso perseguitato per le sue inclinazioni. Così la tematica della queerness, assieme a quella della diaspora, dell’artista indigeno e naif, connatura l’intera ossatura della Biennale 2024. Vi sarà, infatti, un’ampia sezione dedicata nelle Corderie, con artistə provenienti da Canada, Cina, India, Messico, Pakistan, Filippine, Sud Africa e Stati Uniti, e un’altra nel Padiglione Centrale, con opere di creativə soprattutto italianə, filippinə e cinesi. Sempre alle Corderie sarà inoltre presentato il “Disobedience Archive”: un progetto, a cura di Marco Scotini, che dal 2005 indaga le relazioni tra pratiche artistiche e attivismo. Tralasciando quest’ultimo, la tematica della queerness verrà affrontata esponendo opere che sostanzialmente possono essere suddivise in un nucleo storico, comprendente artistə del XX secolo (1905-1990) da America Latina, Africa, Asia e mondo arabo, e in un nucleo contemporaneo, in cui sono statə inseritə Isaac Chong Wai, Violeta Quispe, Louis Fratino, Dean Sameshima, Evelyn Taocheng Wang. Per quanto riguarda i lavori ci saranno molti mixed media ed opere tessili, come quelle di Liz Collins e Frieda Toranzo-Jaeger.

Cominciamo dunque a familiarizzare con quattro di queste artistə.

Frieda Toranzo-Jaeger

Frieda Toranzo-Jaeger.

Nata nel 1988 a Città del Messico, Jaeger esplora la pittura attraverso una lente critica, mettendo in discussione il suo stesso fondamento e facendolo collassare sotto il peso del paradosso artistico per eccellenza: lo stretto legame tra Occidente e mercato dell’arte. La narrazione tradizionale della figurazione si limita spesso a riflettere una prospettiva unica del mondo, ma di recente c’è stata una crescente ricerca di alternative. Con questo obiettivo ben chiaro, l’artista ha iniziato ad “attraversare” le tele con la tecnica del ricamo, una pratica profondamente radicata nelle tradizioni della sua terra d’origine. Tale atto di “disobbedienza epistemologica contro la pittura” suggerisce una visione critica sulla costruzione della storia nel suo complesso, rivelando come sia stata manipolata da coloro che detengono il potere.

Jota Mombaça

Jota Mombaça.

Altra figura interessante della 60esima Biennale è quella di Jota Mombaça, artista multidisciplinare che vive tra Lisbona e Amsterdam. Il suo lavoro unisce poesia, teoria e performance. Attrattə soprattutto dalla componente sonora e visiva racchiusa in ciascun vocabolo, nella pratica artistica mette alla prova i concetti di resilienza e memoria criticando il colonialismo e promuovendo la disobbedienza di genere. Attraverso l’arte tenta dunque di mettere in scena la fine del mondo così come lo conosciamo, auspicando la nascita di un nuovo modello di umanità.

Manaura Clandestina

Manaura Clandestina è invece nata a Manaus, nel nord del Brasile, figlia di missionari evangelici in Amazzonia. Inizialmente il suo rapporto con la creatività è stato mediato da una forte componente religiosa, da cui si è progressivamente distanziata quando si è trasferita a San Paolo. Lì è cresciuto il suo interesse per la vita notturna della città e, attraverso delle performance, ha iniziato a descrivere l’esistenza delle persone non binarie, diventando infine responsabile artistica di Ateliê TRANSmoras, insieme alla designer Vicenta Perrotta: un progetto focalizzato sulle corporeità non conformi tra arte e moda.

Ana Segovia

Dal canto suo, Ana Segovia utilizza la tecnica pittorica per produrre scene che sovvertano l’eteronormatività radicata nell’immaginario popolare. L’artista, infatti, reinterpreta spezzoni cult e figure popolari del cinema western e dello sport ridiscutendo il loro ruolo egemonico come modelli idealizzati di mascolinità. Ne altera dunque le forme, le cromie e, tramite lo strumento dell’ironia, riscrive i nostri schemi visivi, invitandoci a riconsiderarli.

Nelle prossime settimane continueremo ad analizzare altrə artistə invitatə a partecipare, ma già adesso possiamo a ben diritto ribadire che, ancor più che nelle passate edizioni, la Biennale 2024 si preannuncia come un catalizzatore di trasformazioni e un’occasione per ridefinire i confini dell’arte contemporanea e delle nostre conoscenze a riguardo.

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