Giulio Alvigini: “Sono il giullare di corte del sistema, lotto per cambiarlo sapendo che resterà com’è”

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Scena: interno giorno. Un uomo e una donna si guardano. Lui le dice: inauguro una nuova mostra. Lei: inauguri una nuova mostra o è la solita mostra di scritte e meme stampati? Lui – faccia triste e sconsolata –, ammette a malincuore: la solita mostra di scritte e meme stampati. La scena, va detto subito, è quella, divenuta cult, ripresa dal film Donnie Darko, del 2001, nel quale il protagonista principale dice alla sua psicanalista, la dottoressa Thurman, di essersi fatto un nuovo amico, ma questa lo costringe ad ammettere che è un amico immaginario, che gli si presenta vestito da coniglio: da questa clip verranno tratti moltissimi meme. Buon ultimo, quello di cui stiamo raccontando, nel quale a parlare con la dottoressa Thurman non è Donnie Darko, ma l’artista Giulio Alvigini: è infatti lui a confessare di fare la mostra con “le solite scritte” e con i “soliti meme stampati”.

Ed è proprio “Le solite scritte” il titolo, autoironico, giocosamente perfido e sferzante quanto sa esserlo solo il suo autore, dell’ultima mostra personale – aperta presso lo spazio OPOS di Milano fino al 23 aprile –, di Giulio Alvigini, classe 1995, artista atipico che si muove trasversalmente, come un agent provocateur, all’interno del sistema dell’arte pur irridendolo costantemente e mettendone a nudo debolezze, ipocrisie, conformismi, autoreferenzialità e megalomanie.

Scritte, dunque, e meme a volontà, molti dei quali sono già ripetutamente comparsi sui plurivisitati profili Instagram o Facebook creati da Avigini nel 2018 dal titolo – già di per sé un programma – makeitalianartgreatagain, il cui obiettivo principale è burlarsi, in maniera divertita e leggera, ma con un profondo senso di verità (come spesso accade a chi sceglie il registro della comicità e della satira) di attori, primedonne e comparse di quel bizzarro oggetto non identificato che è il sistema dell’arte nostrano, mettendo il dito nelle tante piaghe di cui soffre, dalla mitomania dei curatori, alla piaggeria di molti artisti e aspiranti tali, alla prosopopea di chi si crede già arrivato e tratta tutti dall’alto in basso, alla feroce competizione che lo attraversa, allo snervante senso di déja vu che accompagna la visita a mostre e fiere di settore.

Ecco allora che la stessa scena di cui parlavamo in apertura si ripete in diversi meme: con il protagonista che dice “sai, espongo alla Biennale”, e la psicanalista: “Esponi alla Biennale o esponi a Venezia nei mesi della Biennale?”. “Espongo a Treviso nei giorni della Biennale”. Oppure (in questo caso, a parlare con la psicanalista è Maurizio Cattelan): “Ho presentato una nuova mostra”. “Nuova, o il solito impiccato?”. “Il solito impiccato”.

Ma non sono solo i meme a farla da padrone nel lavoro di Alvigini. Ci sono, appunto, molte delle sue “solite scritte”: come quella, gigantesca, di ben 24 metri, che campeggia nella mostra milanese, che recita: “È tutta una performance” (frase che in qualche modo ricorda il lavoro, esilarante e di grande successo una ventina d’anni fa, dell’artista berlinese Tino Sehgal, che, alla Biennale del 2005, di fronte al Padiglione della Germania, faceva ripetere ossessivamente a un attore-saltimbanco la cantilena: “This is so contemporary, contemporary, contemporary”: mantra-sfottò che si burlava, come fa anche Alvigini, della mania di trovare tutto “performativo” e “contemporaneo” nella realtà di oggi). E ancora: “Tutto già visto”, esposto su uno striscione nero (l’effetto migliore, potremmo dire “la morte sua”, fu quando fu installato all’ultima edizione di Arte Fiera, dove gli stand-fotocopia da un anno all’altro tendono ossessivamente a ripetersi con snervante ripetitività); e ancora: “L’arte è carta da parati per ricchi”; o semplicemente: “Bellissimo”. O i cartelli che lo stesso Alvigini brandiva di fronte al pubblico, come un antico banditore pubblicitario: “Non dite a mia madre che faccio l’artista… lei mi crede scippatore di vecchiette”; o: “Non sono qui per l’arte ma per le pubbliche relazioni”.

Ne ha per tutti, Alvigini, e non risparmia nessuno. Gli artisti, chiamati per nome e ridicolizzati in meme sarcastici, affilati, irresistibili. Da “Fastidiosio come un Arcangelo Sassolino nella scarpa” a “The Legend of Zorio” a “tibia e Perrone” a “Playbeuys”, e via così, colpendo senza risparmio mostri sacri, guru e santoni intoccabili, da Mario Merz a Marina Abramovic, da Alighiero Boetti a Pistoletto (senza dimenticarsi dei giovani: “Da artista emergente ad artista emarginato è un attimo”). Nessuno è al sicuro, sotto lo sguardo sarcastico e affilato di Alvigini. Non i critici (“Hasta la reevoluvcion siempre”, con Giacinto Di Pietrantonio nelle vesti di Che Guevara, e Luca Beatrice in quella di Fidel), né le singole opere (la banana di Cattelan: “Quando ordini su Wish”; quella di Veneziano: “Quando ti arriva a casa”), né le fiere, le manifestazioni, le grandi mostre, le residenze d’artista (“Si scrive “Residenza d’artista”, si legge “vacanza spesata”), le accademie d’arte (“E così frequenti l’accademia”?” “sì ma niente di serio”), fino alle frasi divenute virali, oggetto non solo di meme, ma anche di magliette e serigrafie (“I don’t need sex The art world fucks me evenry Day”, o: “Il problema non è l’arte contemporanea in sé ma l’arte contemporanea in me”).

Una su tutte, potrebbe in fondo essere l’epitaffio perfetto di tutto il rapporto col sistema dell’arte: “Non ho bisogno di Halloween per circondarmi di mostri, frequento già il mondo dell’arte tutto l’anno”. Un’altra, invece, stampata su un asciugamano con tanto di porta-asciugamano incluso, sembra il perfetto epitaffio, non solo dello stesso Alvigini, ma anche di tutti quegli artisti che nascono incendiari e muoiono Accademici, serviti e riveriti dal sistema: “Nasci criticando il sistema dell’arte, muori facendone parte”:

Per provare a capire poetica, genesi e significati nascosti nel lavoro di Alvigini (che è anche collaboratore fisso di Artuu, con la sua Alvignetta pubblicata in home page, corrispettivo contemporaneo della classica vignetta satirica presente nei vecchi quotidiani cartacei, attraverso la quale l’artista commenta avvenimenti, mostre e ricorrenze del mondo dell’arte, ndr), gli abbiamo rivolto alcune domande in questa intervista esclusiva.

Giulio, partiamo da te. Vorrei sapere come ti definisci, perché sei certamente artista, ma è anche sei un po’ divulgatore, comunicatore, social media manager. Sei tutto questo insieme o la tua è una figura nuova, ancora difficile da definire?

In realtà non saprei neanche io: “artista” è un’etichetta che vivo con una certa soggezione. Può essere difficile assumere questo ruolo senza sentirsi presuntuosi o arroganti, perché richiede il riconoscimento degli altri, in primis da parte del sistema. Certamente nel mio caso ci sono diversi livelli interpretativi, c’è, come dici, la dimensione della comunicazione e anche della divulgazione, mantenendo sempre come focus l’oggetto-carriera dell’artista. In questo senso, sì, parlerei di opera carriera, per cui questa confusione di ruoli secondo me è coerente con la visualizzazione della carriera dell’artista intesa non solo come oggetto della ricerca artistica, ma proprio come opera d’arte in sé.

Partendo dal principio, come sei arrivato a fare l’artista?

La mia formazione è molto tradizionale, liceo artistico a Genova, Accademia di Belle Arti a Genova con laurea triennale in scenografia e due anni di specialistica a Torino in comunicazione valorizzazione del patrimonio artistico contemporaneo.

Una delle tue prime “opere” è stato però scrivere un libro, Manuale per giovani artisti (italiani semplici) – Meme e sistema dell’arte italiano (Postmedia Books 2020): già questo è singolare nella carriera di un artista, di solito a scrivere e publicare libri ci si arriva tardi, a fine carriera, per te è stato se vogliamo un inizio di carriera…

Diciamo che, già negli della mia formazione, avevo sviluppato una prospettiva critica e un po’ disillusa verso il mondo dell’arte, ma anche una sorta di ossessione nei confronti dei retroscena del sistema del contemporaneo. Ad esempio osservavo, con un misto di incredulità e di divertito stupore, la reazione entusiasta di molti dei miei compagni di fronte a opere e artisti che, secondo me, non meritavano poi tanto clamore. Ad esempio, in tutti i corsi ci facevano vedere The artist is present, il documentario sulla performance del MoMA della Abramovic, che era uscito da poco, e io vedevo di fianco a me tutta questa gente che si strappava i capelli dalla gioia, piangeva per il video emozionante, mentre invece io molto più pragmaticamente mi domandavo come mai la Abramovic, che in fondo non è così superiore a tanti grandi esponenti di quella performatività degli anni Sessanta e Settanta, fosse diventata non solo una star, ma un vero e proprio brand. Questo mio punto di vista distaccato e disilluso mi ha spinto a scrivere un libro che voleva essere una sorta di risposta alle domande che mi ponevo durante quegli anni di studio. Volevo offrire una prospettiva più sincera e pragmatica sull’arte contemporanea, distante dalla romanticizzazione e dalla commercializzazione che spesso la circonda, e in realtà voleva essere il libro che avrei voluto leggere io durante i miei anni di Accademia.

Tu, a quel tempo, avevi aperto i tuoi profili makeitalianartgreatagain da non più di un paio d’anni, innestando per la prima volta il linguaggio ipercontemporamneo dei meme, considerati la “spazzatura del web”, nel circuito dell’arte contemporanea…

Sì, avevo aperto la pagina nel 2018, ottenendo devo dire quasi subito un grande successo.

Come sei arrivato a sdoganare i meme nell’arte contemporanea?

Non è che a me appassioni il linguaggio dei meme, semplicemente credo che un artista debba essere come un’antenna parabolica, in grado di captare ciò che accade intorno a sé. Allora in quel periodo il meme stava già dilagando come riflessione-derisione dei vari aspetti della vita quotidiana, un divertimento-sfottò venuto dal basso, dal ventre molle di Internet, e dilagato in maniera esponenziale, però nell’arte non era ancora stato usato. Allora io ho preso la palla al balzo e l’ho utilizzato per primo per raccontare, con una sorta di cinico distacco, i meccanismi che mi interessavano del “dietro le quinte” dell’arte, ma questa è stata una scusa anche per farsi conoscere, per caratterizzare il mio lavoro e identificarmi.

Sembri voler dire che nella scelta dell’utilizzo dei meme ci sia anche una certa dose di furbizia, è un modo per farsi conoscere e riconoscere. Eppure, questo scavare e ridicolizzare il sistema e i suoi meccanismi è anche un modo per scardinarli, per metterli a nudo, per denunciarne ipocrisie e superficialità…

Questo in una certa dose c’è, ma io in realtà sono un po’ scettico sulla dimensione della denuncia, della decostruzione del sistema come possibilità di cambiamento, io mi vedo più come un caricaturista, e sai, la funzione del caricaturista è quella di prendere alcuni aspetti della realtà ed esasperarli, utilizza l’iperbole, l’esagerazione per farsi beffe della realtà che lo circonda, ma senza caricarle di un aspetto negativo o positivo. D’altra parte già a scuola, io ero quello che faceva le caricature ai professori, ero famoso per questo, e col tempo in fondo non sono cambiato molto…

Però anche il mettere a nudo le situazioni, esasperandole e utilizzando l’arma dell’ironia, com’è noto è una maniera per mettere a nudo i meccanismi che le sottendono, tutti i grandi comici in fondo hanno un sottofondo di carica morale, di denuncia…

Sì, è vero, ma in fondo è una sorta di cane che di morde la coda: sberfleffo un sistema e un meccanismo, quello dell’artista nel sistema e dei modi per venire a galla, per farsi conoscere e riconoscere, e facendolo mi faccio conoscere. Siamo sempre nel campo del meta-linguaggio, e in questa contraddizione, e sul cortocircuito che si installa in questo meccanismo, costruisco la mia stessa carriera d’artista.

Ecco, ma in questo tua pratica di tipo situazionista all’interno del sistema dell’arte, ti senti più erede di Warhol, di Cattelan o di Duchamp?

Di Warhol senz’altro un po’ per il lato pop del mio lavoro, e a proposito di situazionismo certamente di Guy Débord per l’aspetto “spettacolare” di tutta la mia pratica artistica, ma se devo dirti la verità mi sento soprattutto erede di Totò, di Buster Keaton e di Paolo Villaggio: per i grandi artisti appartengono più al genere della comicità che alla scena artistica istituzionale.

Una delle tue “solite scritte” recitava: “Nasci criticando il sistema dell’arte, muori facendone parte”. Anche per te credi che varrà questa massima?

Sì, per forza. Del resto, come ti dicevo, sono piuttosto disilluso riguardo alla possibilità di trasformare il sistema dall’interno, perché anche la critica al sistema, paradossalmente, stimola sua vanità, e in qualche modo non fa che rafforzarlo. Tuttavia, se devo immaginare il sistema dell’arte con una simbologia, lo vedo come una sorta di corte medioevale con tutti i suoi riti, le sue piaggerie e ipocrisie. Io, allora, non posso che essere il classico giullare di corte, che ha il privilegio di essere ascoltato dal Re pur urlando ai quattro venti che il Re è nudo.

Per concludere, come vedi il futuro del sistema dell’arte?

Ti rispoderò con una frase di Marx, che diceva di non poter fornire ricette per le osterie dell’avvenire. Alrimenti, se preferisci un registro più pop, ti posso sempre citare Cattelan, che una volta ha detto che la previsione del futuro la lascia volentieri ai Simpson. Battute a parte, non vedo grandi stravolgimenti in atto: credo che il sistema possa anche cambiare nelle sue forme ersteriori, ma alla fine le logiche rimango sempre un po’ le stesse… La pandemia ha suscitato momenti di entusiasmo e speranza, ma alla fine tutto è tornato come prima. Anche l’avvento del digitale è sembrata più un’opportunità per mercificare che per trasformare radicalmente il sistema.

In conclusione, si cambiano i linguaggi e si adottano nuove forme, ma alla fine si ritorna sempre a sé stessi. Come insegna il Gattopardo, si cambia tutto per far restare tutto come prima...

Esattamente! Il sistema dell’arte può adattarsi, rinnovarsi ed evolversi, ma la sua essenza rimarrà sempre invariata.

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