Asfissia! Un quadro di Morbelli. Un giallo nella Milano del 1800 (pt. 3)

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Nella prima e nella seconda puntata, abbiamo svelato il mistero nascosto dietro a un celebre capolavoro di Angelo Morbelli, Asfissia!. Al centro, c’era un fatto di cronaca avvenuto a Milano nel febbraio del 1884: due giovani innamorati avevano trovato rifugio in un hotel proprio di fronte alla Stazione, l’Albergo Torino. E nel corso della notte..

Il Piazzale della vecchia Stazione Centrale di Milano all’inizio del secolo. Su questa piazza si affacciava l’Albergo Torino, dove trovarono rifugio i due innamorati nel febbraio del 1884.

Il dramma si compie

Ma ecco la cronaca di quel che accadde in quelle drammatiche ore che precedono il fatto: Scesi dal brougham di fronte all’hotel, i due giovani “suonavano il campanello e chiedevano una stanza”. Erano, annota il “Corriere della Sera”, le 4 e mezza di notte. “Il cameriere li accompagnò al secondo piano, al N. 14, che è una camera piuttosto vasta, con due letti gemelli di ferro uniti, due comò, una poltroncina, qualche sedia, due tavolini da notte ed un altro piccolo tavolino. Ha una finestra con piccolo balcone a ringhiera di ferro, che guarda sul piazzale della stazione”.

“I due ospiti”, prosegue l’articolo, “non si sono fatti vivi prima di un’ora e tre quarti prima di mezzogiorno. A quell’ora hanno suonato il campanello, hanno fatto salire il direttore dell’albergo, il signor Bronzini, e gli hanno ordinato da pranzo raccomandandogli di far loro servire vini buoni e cibi freschi e saporiti”.

“Per tutto il giorno si fecero servire nella stanza, schivando di farsi notare neppure dai frequentatori del Restaurant”, annota “La Perseveranza”, mentre “La Lombardia”, altro quotidiano dell’epoca, aggiunge: “Fecero colazione, pranzarono succolentemente, bevendo anche dello sciampagna”. Eccola, dunque, la scena madre cui si ispirò Morbelli: la tavola ancora apparecchiata, i resti dei “cibi freschi e saporiti”, dei “buoni vini” e dello “sciampagna” che la coppia si concesse prima del dramma.

“Niente, assolutamente nulla”, sottolinea il “Corriere”, “avrebbe potuto allora far sospettare la terribile decisione presa”. “Più tardi”, continua il quotidiano, “hanno fatto accendere la stufa ed al piccolo [lo sguattero bambino, ndr] mandato ad accenderla hanno fatto domande se era possibile avere del carbone. Il piccolo ha risposto evasivamente, ma non ha dato importanza a quella domanda”.

Francesco Didioni, Camera in stile impero.

Fermiamoci un momento: è questo, infatti, un altro punto cruciale, che con ogni evidenza dovette accendere la fantasia del pittore, fino a fargli ispirare il suo celebre titolo, Asfissia: la prima idea della coppia fu infatti, a quanto pare – riportano concordemente tutti i giornali dell’epoca – quella di darsi la morte tramite asfissia. “Alla sera”, scrive in proposito “La Perseveranza”, “volendo compiere il disegno da loro già precedentemente stabilito, cercarono di avere del carbone con cui procurarsi la morte”.

È proprio l’asfissia, dunque – quella a cui Morbelli dedicò addirittura il titolo del suo capolavoro –, e non altra, l’idea originaria con cui la coppia di innamorati pensò di darsi la morte. Ed ecco, presumibilmente, la scintilla che fece scattare in Morbelli l’idea di quell’escamotage, così decadente e romantico, dei fiori (complice, forse sì, qui, Baudelaire, con la tragica enfasi dei suoi amanti, decisi a darsi la morte in un letto di fiori).

Luigi Scrosati, Fiori con pergamena.

Fiori, dunque, a mucchi, a mazzi, sparsi ovunque, coi quali tappezzare letteralmente il pavimento della stanza. Dall’idea di procurarsi la morte per asfissia, retaggio del fatto di cronaca originario, Morbelli passa così alla sua metafora, i fiori che si decompongono; inventando così, di fatto, ex novo, un particolare che oggi, a posteriori, possiamo senza ombra di dubbio definire come pura invenzione poetica dell’artista (poiché, effettivamente, di fiori non v’è traccia nelle cronache dell’epoca): escamotage fortemente simbolico, che evidentemente allude, in accordo col titolo, ad altro: a un amore perduto, disperato, ossessivo, e insieme alla vita che finisce, che muore, che implode in se stessa. La cronaca di un amore, dunque, ma di un amore asfissiante, appunto. 

Con un doppio salto, concettuale e stilistico, Morbelli pensò dunque di risolvere la questione del titolo e del concetto stesso del quadro, così allusivamente drammatico, in una parola – “Asfissia” –, e insieme nella sua perfetta metafora visiva: i fiori, simbolo dell’amore, della rinascita, della primavera, dell’esuberanza della vita, ma anche, allo stesso tempo – nel momento in cui li si lascia decomporre e morire –, della vita che si disfà, che precocemente perisce, si decompone, e finisce.

Tranquillo Cremona, L’edera, 1878.

E allora, ecco il colpo di genio dell’artista, la sua trovata stilistica e concettuale: è, effettivamente, l’asfissia (quella a cui i due giovani pensarono per prima cosa, nel fatto di cronaca reale, e di cui rimane testimonianza nelle cronache dell’epoca) la causa effettiva della loro morte, o è piuttosto soltanto quella indiretta, metaforica – ovvero l’asfissia di un amore divenuto maniacale, ossessivo, “tossico”, si direbbe oggi, unica causa di vita, fino a condurre i due giovani ad estraniarsi dalle regole, dalle convenzioni, dai diktat del loro tempo e delle loro famiglie, dunque dall’intera società nella quale vivevano, fino a darsi la morte?

Le ultime, tragiche ore dei due innamorati

Ma torniamo allora ai due giovani, e alle ultime, drammatiche ore che trascorrono, soli, nella stanza d’albergo. “Verso le 8”, scrive ancora il “Corriere”, “tanto l’ufficiale che la signorina erano occupati a scrivere”.

Ultima puntata del giallo nella Milano del 1800 che si cela dietro al capolavoro di Angelo Morbelli "Asfissia!"
Tranquillo Cremona, Attrazione.

Le ore sembrano dipanarsi lente e drammatiche, nella stanza dell’albergo milanese. I due giovani scrivono (anche delle loro lettere vi sarà traccia nel quadro di Morbelli, appoggiate sulla ribaltina, di fianco al calamaio), mangiano, bevono. Sicuramente parlano tra loro, febbrilmente. La tragedia corre, rapida incalzante, verso la sua conclusione.

“Fino alle 4 ½ quiete perfetta al N. 14”, continua il “Corriere”. “Al piano terreno c’era il pranzo dato in onore del professore Brofferio e la maggior parte del personale era occupata giù. Alle 10 e un quarto, partiti tutti i commensali del banchetto, il direttore Bronzini saliva ai piani superiori quando giunto al primo piano sentì uno strano e confuso rumore al secondo piano. Avvicinatosi alla porta del N. 14 picchiò tre volte e non ebbe alcuna risposta. Ma stando in orecchio udì una voce lamentevole di donna che domandava soccorso. Allora con uno scalpello forzò la serratura ed entrò. La fanciulla in camicia era appoggiata al letto dal quale sembra fosse discesa tentando di avvicinarsi alla porta e chiedere aiuto. Una larga macchia di sangue nella camicia sotto la mammella sinistra indicava la ferita. Il giovane era a letto sotto le coperte fino al busto, colla testa pendente sulla spalla sinistra, in atteggiamento di chi dorme. Il giovine era già cadavere: la fanciulla, soccorsa subito dal Bronzini, fu portata in un’altra camera dove è stata amorevolmente confortata ed assistita. (…) Quanto all’ufficiale, egli aveva mirato diritto al cuore e la morte deve essere stata istantanea”.

La tragedia, dunque, è compiuta. La scena è quella che Morbelli descriverà, fin nei minimi particolari, nel suo quadro. I corpi, la tavola ancora apparecchiata, le bottiglie di sciampagna, le lettere, il revolver. “I due giovani”, annota ancora il “Corriere”, avevano lasciato sul tavolino della camera 4 lettere chiuse e 4 piegate ma non ancora riposte nella busta”. Quanto al revolver, “pare che sia stato comprato sabato o domenica dal Franzini nella bottega d’armaiuolo della vedova Legnani in via Broletto”.

È l’epilogo di una piccola grande tragedia d’amore, cui Morbelli si ispirerà per farne quello che rimarrà indiscutibilmente il suo capolavoro, benché irrimediabilmente diviso in due parti.

Angelo Morbelli, Alba felice, 1853-1919.

Una tragedia che riserva ancora un mistero, poiché le cronache dell’epoca, che seguiranno il fatto soltanto per pochi giorni, non dicono se la giovane Gina Beltrami, dalle forme giunoniche e dall’irresistibile simpatia, riuscirà a salvarsi. Sappiamo che, pochi giorni dopo, verrà trasportata dall’albergo alla casa paterna, e che i medici, “se non succedono recrudescenze”, sperano di salvarle la vita. Sappiamo però anche – stando almeno alle cronache dell’epoca – che cosa li portò a volersi dare la morte.

È “La Perseveranza” a istruircene: “Gli ostacoli” opposti dalle famiglie al loro amore “accrebbero infatti”, scrive il giornale, “l’incentivo nei due innamorati, tanto più che la loro indole era trascinata per tutto ciò che avesse del romanzesco. Si dice anzi a questo proposito”, conclude il giornale, “che la Gina Bignami si dilettasse grandemente della lettura dei romanzi i più strani”.

(Fine)

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