Asfissia! Un quadro di Morbelli, due giovani innamorati. Un giallo nella Milano del 1800. Finalmente risolto

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Il giallo è risolto. Sono passati 140 anni da quel mese di ottobre del 1884, quando Angelo Morbelli, pittore allora trentenne e già conosciuto a Milano come uno degli esponenti del nuovo realismo pittorico a sfondo sociale, solo in seguito abbandonato in favore di un pacato divisionismo, espose all’Accademia di Brera quello che sarà in seguito conosciuto come il suo capolavoro – Asfissia!

Il soggetto? Una tavola apparecchiata, vini, liquori, avanzi di cibo, di caffè e di liquori, una penna, un calamaio, alcune lettere già scritte ma non ancora impostate; e ancora, un revolver appoggiato su una ribaltina, a fianco delle lettere e del calamaio, un candeliere ancora fumante sul tavolo, un cappello a cilindro (o gibus) appoggiato su una poltrona, un pavimento coperto di fiori; e, in un angolo, su un divano e ai suoi piedi, due corpi distesi: di un uomo e di una donna. Morti. O almeno, così sembra (uno dei due in realtà si salverà: ma procediamo con ordine).

Angelo Morbelli, Autoritratto allo specchio o L’artista e la modella, 1901, olio su tela, 123 x 91 cm. Collezione privata.

L’epilogo di una notte drammatica, vissuta – nonostante tutto, o a far da contraltare alla disperazione: poiché si dice che la disperazione non sempre fermi l’appetito – tra abbondanti mangiate e altrettanti abbondanti libagioni (di vino, o per meglio dire di sciampagna, come si amava dire allora); e poi disperazione, passione, amore, sesso (almeno così ci piace immaginare), il tutto nel corso di una notte di veglia febbrile e col desiderio sempre più stringente di farla finita, una volta per tutte, con una vita che non poteva più dare nulla, di fronte allo sconforto e all’angoscia di un amore passionale e disperato, che tuttavia, evidentemente, non aveva, di fronte alla società e ai desiderata delle famiglie, futuro alcuno. La didascalia del quadro – unico indizio lasciato dall’artista, con abile e sottile strategia, sul luogo del delitto – recitava testualmente: “Diedero varie lettere da impostare e ordinarono un pranzo più succulento del solito, e quanti fiori gli era possibile portare. Recati i fiori, il cameriere notò che la signora aveva indosso una veste bianca e semplice, e lasciato ricader sulle spalle le trecce cosparse. L’indomani il sole era già alto”.

Lawrence Alma-Tadema, Le rose di Eliogabalo, 1888.

Il gusto è quello del periodo: decadente, tardoromantico, molto melodrammatico, dove alla bellezza dei fiori, di cui è cosparso il pavimento della stanza, fa da contraltare una nota torbidamente sensuale, e un tretrogusto di angoscia, di asfissia (come recita appunto il titolo del dipinto), e soprattutto di morte. Sono, del resto, i temi trattati nel periodo da molti altri pittori, come Lawrence Alma-Tadema, di cui il pittore milanese avrebbe potuto ammirare i dipinti a Parigi quache anno dopo, all’Esposizione Universale del 1889.

Molti fiori, i resti di un pranzo sulla tavola, e due giovani, sdraiati in un angolo della stanza, apparentemente morti. Dunque, di che si tratta, si chiedono allora i contemporanei del pittore, e, con essi, i posteri, di fronte a quello che appare come un mistero solo accennato, ma mai risolto? Di un omicidio-suicidio? Di un doppio suicidio? O dell’omicidio di entrambi da parte di un terzo incomodo, entrato nella stanza per far giustizia di un amore di cui era geloso? Oggi, finalmente, a 140 di distanza dal fatto, abbiamo la risposta. Netta, inequivocabile. Che riserva anche, forse, un (seppure parziale) lieto fine. E che forse, con gli strumenti, e la sensibilità mutata, di oggi, si può rileggere anche in un’altra chiave. Potrebbe essere quello oggi viene chiamato femminicidio (o tentato tale), nato da una passione malata, una relazione tossica, impossibile da sostenere, da ufficializzare – per le diverse classi sociali a cui i due appartenevano – a cui poi sarebbe dovuto seguire il suicidio del colpevole?

Angelo Morbelli, Venduta (Derelitta), 1897. Olio su tela, 67 x 107 cm. Collezione privata.

Una tela, molti indizi

Ma – come in tutti i thriller che si rispettano –, prima di svelare la soluzione del giallo, procediamo ancora un momento con la storia e i suoi intricati indizi. Il mistero di questa tela, infatti, non è finito. Accolta malamente e con un po’ di freddezza dalla critica di allora – tela definita “ardita, originale, bizzarra, dove i particolari vincono l’assieme per la maniera onde il Morbelli li ha condotti e per le impressioni che essi suscitano negli osservatori attenti”, dove “il soggetto principale (i due amanti, ndr) è annegato e scompare in mezzo a tanti fiori, e a tanti oggetti che il Morbelli ha raggruppato alla sinistra” (così Il Pungolo, giornale attento alle novità artistiche e letterarie, all’epoca) –, Morbelli pensò bene di tagliarla a metà, o meglio a tre quarti: eliminando dalla tela principale (quella che rappresentava la tavola apparecchiata, il revolver, le lettere, il gibus) la cruda descrizione del dramma, ovvero i corpi: lasciando così, si può dire, la scena del crimine vuota, priva dei suoi attori principali.

E così, per altri cento e passa anni, del quadro che rappresentava un misterioso suicidio (o omicidio?), non rimase che una tavola apparecchiata, quasi a limitare il soggetto alla semplice scena di un pasto pantagruelico appena finito: privato, dunque, almeno apparentemente, della tragicità da cui la tela originaria aveva avuto origine; tanto che Germano Celant, non si sa se per furbizia o per ignoranza, pensò bene, nel 2015, di esporla alla Triennale, nella sua mostra “Arts & Food”, come simbolo non di amore e morte, qual era in origine, bensì di una normalissima grande bouffe (una grande abbuffata) ottocentesca. Un travisamento bell’e buono del senso vero e profondo del quadro, che, benché monco, in realtà continua tutt’ora a mantenere quell’alone di mistero, quell’atmosfera romantica un po’ asfissiante, che Morbelli gli diede fin dall’origine.

Ma oggi, del mistero di quel quadro si vede finalmente la soluzione.

(Continua – 1)

La seconda parte la trovate qua.

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