Biennale, la riscossa dei Nativi

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Non potevano essere di certo assenti, in questa 60esima Biennale di Venezia, gli artisti che hanno dedicato e dedicano la propria esistenza a preservare la propria identità, che portano avanti negli anni e nei secoli le caratteristiche, i capisaldi, i segni incancellabili delle proprie origini. Origini spesso sopraffatte, cancellate, sostituite da sistemi e regole imposte, con la forza, con la violenza e la voglia di sopraffazione che purtroppo il genere umano ha sempre esercitato nei secoli.  Mai come quest’anno il tema calza a pennello. Il tema delle origini, del sentirsi spaesati e snaturati della propria essenza in una terra che non ci appartiene e sembra rifiutarci in quanto diversi, del vagare in un mondo che ci ha generati e che spesso, contro natura,  ci mette nelle condizioni di combattere per rimanere Noi, per preservare il nostro essere più vero e intimo, si pone in perfetta armonia con alcuni degli artisti che troveremo in laguna e di cui parleremo oggi.

Australia: Archie Moore

Archie Moore.

L’artista indigeno Archie Moore, appartenente alla First Nation e residente nel Queensland, sarà colui che rappresenterà l’Australia alla Biennale di Venezia 2024, con la curatela di Ellie Buttrose.

Nato nel 1970 (dato da non tralasciare), subito dopo il referendum che ha conferito i diritti di cittadinanza costituzionale alle popolazioni indigene australiane, Moore è famoso per realizzare installazioni su larga scala che riflettono le tensioni tra le storie personali e quelle ufficiali del passato coloniale australiano, con grande attenzione per le questioni identitarie, il dialogo interculturale e il razzismo. Con la sua personale Kith and kin ci renderà partecipi della sua eredità Kamilaroi, Bigambul, britannica e scozzese.

Francia: Julien Creuzet

La Francia ha nominato lo scultore Julien Creuzet per il suo Padiglione Nazionale a Venezia. L’artista, nato nel 1986 a Le Blanc Mesnil, conferisce una forma alla propria identità franco-caraibica con l’utilizzo di materiali industriali, corde e plastica. “Il suo lavoro singolare e il suo dono per la letteratura orale si nutrono di creolizzazione riunendo una diversità di materiali, storie, forme e gesti. Le questioni sollevate dalle sue opere troveranno, al Padiglione francese a Venezia, una risonanza particolarmente importante con quelle del nostro tempo”, hanno dichiarato in un comunicato gli organizzatori del Padiglione, che hanno aggiunto: “Julien Creuzet è stato scelto anche per gli orizzonti che disegna, andando oltre l’opposizione tra identità e universalità, dimostrando che nel piegarsi dell’arte, gli echi poetici e artistici tracciano sempre risposte tanto belle, gioiose e rigeneranti quanto inaspettate”.

Saranno due le curatrici che lo seguiranno nell’esperienza veneziana: Céline Kopp, nuova direttrice del centro d’arte di Grenoble Le Magasin, e Cindy Sissokho, curatrice della Wellcome Collection a Londra.

Benin: “Everything Precious Is Fragile”

Moufouli Bello.

Merita tutta la nostra attenzione la Repubblica del Benin, che sarà presente per la prima volta alla Biennale. La mostra collettiva sarà a cura del nigeriano Azu Nwagbogu fondatore della Lago’s African Artists’ Foundation e direttore del Lagos Photo Festival dal 2010. Azu si è sempre mostrato interessato a difendere strenuamente l’arte e la fotografia africana dei nostri giorni. A Venezia tratterà temi come la tratta degli schiavi, la spiritualità Vodun e la filosofia Gèlèdé, fino al “rimatrimonio”, un’interpretazione femminista della restituzione che prevede non soltanto il ritorno degli oggetti, ma anche della filosofia e degli ideali beninesi precedenti alla colonizzazione.

© Ishola Akpo and Fondation Montresso.

Per mettere in atto il suo progetto, dal titolo “Everything Precious Is Fragile”, Azu, si affiderà a quattro artisti: Renzo Martens, Moufouli Bello, Romuald Hazoumè e Chloé Quenum. Ad accompagnarlo nella curatela ci saranno Yassine Lassissi, della Galerie Nationale du Bénin e l’architetto Franck Houndégla.

Brasile: Sarà Glicéria Tupinambá

Sarà Glicéria Tupinambá.

Ka’a Pûera: nós somos pássaros que andam/ Ka’a Pûera: siamo uccelli che camminano. Sarà questo il titolo scelto da Sarà Glicéria Tupinambá per rappresentare il Brasile in Biennale, ribattezzato poi “Hãhãwpuá “, uno dei nomi nativi del Brasile prima della colonizzazione europea.

Sarà Glicéria Tupinambá.

La curatela sarà affidata a tre professionisti indigeni: Arissana Pataxó, Denilson Baniwa e Gustavo Caboco Wapichana. Sono proprio loro a dire: “Nell’antico Tupi, la lingua dei Tupinambá, Ka’a Puera indica le antiche foreste tagliate per creare i campi. Dopo la raccolta, questo spazio veniva lasciato al riposo, lasciando emergere una nuova vegetazione” dove trovare “una grande varietà di piante medicinali. Questo terreno in ripresa sarebbe potuto tornare a sostenere la comunità o una nuova foresta. Dove apparentemente non c’è vita, lì è la possibilità di rinascita”. Infatti, per secoli, il popolo dei Tupinambá è stato perseguitato all’interno del suo territorio d’origine nel sud dello stato di Bahia e ha visto la totale espropriazione dei propri beni culturali e naturali. Fino al 2001 si credeva erroneamente che i Tupinambà fossero estinti ma oggi si sono visti  finalmente riconoscere dal governo brasiliano non solo la propria esistenza, ma anche il diritto di rivendicare il territorio e la propria cultura, oggi rappresentata nel nuovo Padiglione.

Canada: Kapwani Kiwanga

Kapwani Kiwanga.

Il Canada sarà invece rappresentato dalla ricercatrice e antropologa Kapwani Kiwanga, nata a Hamilton nel 1978. Il suo è un lavoro interdisciplinare che attinge alla sua formazione in antropologia e abbraccia ricerche d’archivio, performance, video suoni, foto, sculture e installazioni che hanno però un comune denominatore: disvelare l’asimmetricità del potere e le sue ripercussioni interne, così come la diaspora africana e le tematiche di genere, attraverso una commistione di strategie concettuali, architettoniche e formali. 

Kapwani Kiwanga.

Il curatore Gaëtane Verna, dell’artista nativa dice: “è interessata al ruolo dell’arte come catalizzatore per rivelare e affrontare narrazioni socio-politiche alternative e spesso messe a tacere ed emarginate che fanno parte delle nostre storie condivise”.

Gran Bretagna: John Akomfrah

John Akomfrah.

Il Padiglione Britannico, che avrà quest’anno il supporto del marchio globale di fiere d’arte e riviste Frieze, in collaborazione con il British Council – ospiterà il progetto del regista e sceneggiatore anglo-ghanese John Akomfrah. Famoso in Inghilterra, dove vive e lavora, Akomfrah è membro fondatore dell’influente Black Audio Film Collective (creato a Londra nel 1982 insieme agli artisti David Lawson e Lina Gopaul), ed è stato insignito di premi come l’Artes Mundi nel 2017 e il titolo di Cavaliere per i servizi alle arti nel 2023 New Year Honours; il suo lavoro si è sempre spinto oltre i normali confini del cinema canonico per decenni.

Un frame di “Arcadia” di John Akomfrah. Fotografia per gentile concessione di Smoking Dogs Films e Lisson Gallery.

Muove i suoi primi passi con alcuni documentari sperimentali come Handsworth Songs (1986) il cui fulcro sono le rivolte razziali britanniche dei primi anni Ottanta, mentre oggi si dedica soprattutto a installazioni multischermo sapientemente stratificate che esplorano vari tempi, primo tra tutti quello del colonialismo. Nel 2023 pubblica un nuovo film Arcadia, a proposito del quale ha svelato: “Credo che lo spettatore ideale che lo vede per la prima volta dovrebbe pensare: “Sono qui per vedere qualcosa su come si è formato il Nuovo Mondo”. E poi pensare: “Oh, ma non è affatto ciò che mi aspettavo”.

Un frame di “Arcadia” di John Akomfrah. Fotografia per gentile concessione di Smoking Dogs Films e Lisson Gallery.

In altre parole, voglio che le persone interessate al dramma dell’avventura coloniale si rendano conto che non tutto è interamente responsabilità degli esseri umani”.

Nigeria:

La Nigeria, presente in Biennale per la seconda volta, sarà rappresentata da otto artisti,di diverse generazioni, alcuni già molto noti a livello internazionale: Yinka Shonibare, Tunji Adeniyi-Jones, Ndidi Dike, Onyeka Igwe, Toyin Ojih Odutola, Abraham Oghobase, Precious Okoyomon e Fatimah Tuggar. Un gruppo di artisti eterogeneo, tutti esponenti della diaspora nigeriana e di origini diverse. Adeniyi-Jones e Okoyomon sono i due più giovani. Okoyomon ha già partecipato alla Biennale del 2022 con un’installazione ambientale composta in parte da piante selvatiche che ha riscosso un indiscusso successo di pubblico e critica. Dike e Shonibare sono ormai veterani della mostra. Tra tutti, l’unico a vivere stabilmente in Nigeria è Dike, mentre gli altri, si dividono tra Londra, gli USA e Toronto. Il Padiglione sarà curato da Aindrea Emelife, già curatrice di arte moderna e contemporanea al Museum of West African Art di Benin City. Con il titolo Nigeria Imaginary, la mostra “esplorerà diverse prospettive e idee costruite, ricordi e nostalgia per la Nigeria, con una portata intergenerazionale e intergeografica”.

Paesi Bassi: Cercle d’Art des Travailleurs de Plantation Congolaise

I Paesi Bassi saranno invece rappresentati alla Biennale dal collettivo congolese Cercle d’Art des Travailleurs de Plantation Congolaise (CATPC), originario di Lusanga, il sito della prima piantagione della società anglo-olandese Unilever nella Repubblica Democratica del Congo. Gli artisti congolesi presenteranno una serie di opere che avranno come obiettivo principale quello di attuare una resa dei conti spirituale, etica ed economica per sottolineare l’importanza della liberazione della loro terra d’origine e la necessità di riportarla al suo antico splendore al fine di poter nuovamente ospitare le originarie foreste sacre

Renzo Martens.

Il collettivo lavorerà avvalendosi della collaborazione dell’artista olandese Renzo Martens e quella del curatore Hicham Khalidi, già direttore della Jan Van Eyck Academie di Maastricht.

Stati Uniti: Jeffrey Gibson

Jeffrey Gibson.

Sarà Jeffrey Gibson colui che rappresenterà gli Stati Uniti a Venezia; siamo posti innanzi ad una circostanza unica e particolare: si tratta infatti del primo artista indigeno a rappresentarli in 129 anni di storia della Biennale.

Gibson, discendente degli antichi Cherokee e membro della Mississippi Band of Choctaw Indians, attua un lavoro certosino e inconsueto per dare voce alla cultura nativa contemporanea. Fa infatti uso della pittura, dell’artigianato e del collage e dà vita a opere originali e fortemente caratterizzate. Uno dei suoi obiettivi principali è quello di creare un legame tra la propria opera e chi la osserva. Nativa (della Nazione Navajo) è anche la co-curatrice della mostra, Kathleen Ash-Milby, che lavorerà a fianco della curatrice indipendente Abigail Winograd ed è anche responsabile della sezione di “Arte Nativa Americana” al Portland Art Museum, e a questo proposito ricorda: “Nel 1932, una delle sale era dedicata all’arte dei nativi americani, ma è stato realizzato in quello che direi fosse un tipo di presentazione molto etnografico. Raggruppava insieme i nativi e non si concentrava tanto sulla loro individualità. C’erano tappeti Navajo sul pavimento. C’erano esposizioni di gioielli. Molti degli artisti non avevano un nome”.

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