Origini della Biennale: Ugo Ojetti racconta la prima, storica edizione della manifestazione veneziana

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Com’è nata la Biennale di Venezia? In quale clima, con quali aspettative, tra quali resistenze, speranze, discussioni, polemiche? Per capirlo meglio, abbiamo rispolverato un articolo che Ugo Ojetti (1871 –1946), uno tra i più importanti degli scrittori e giornalisti d’arte italiani del primo Novecento, scrisse per la rivista letteraria e artistica “La Lettura” nel 1901, che prresentiamo qua sotto.

by Ugo Ojetti

Ugo Ojetti.

Nel 1764, con una gentile ingenuità, il conte Algarotti diceva in un suo Saggio sopra la pittura: “Se persona è al mondo a cui sia lecito lusingarsi di provar lungamente felicità, il pittore è quel desso. Standosi il più del tempo in compagnia e non solitario, come necessariamente richiede il più degli altri studii, rade volte avviene che malinconico ne contragga l’umore, o burbero. Quando si trova solo ha come il poeta, il Sovrano piacere della creazione, e sopra di esso il vantaggio che l’arte sua è più popolare non ci essendo dall’uomo il più gentile sino al più grossolano, su cui non abbia presa ed imperio la pittura”.

Mutano i tempi. Se il letterato veneziano, conte di Federico secondo, fosse vissuto oggi e, guardando la realtà con occhio più acuto di quel che gli scrittori aulici allora solessero, avesse scritto quel bell’elogio della felicità dei pittori, sarebbe stato detto maestro d’ironia quanto Anatole France. Dipinger bene vale troppo spesso in Italia, viver male. Forse gli scultori e gli architetti con opere che purtroppo minacciano di durar molto tempo, sono più fortunati dei pittori.

Giovanni Segantini, ritratto di Vittore Grubicy de Dragon, 1887 © Museum der Bildenden Künste, Lipsia. Courtesy Segantini Museum St.Moritz.

Gli indipendenti ostinati, i Fontanesi, i Cremona, i Segantini, i Signorini – per parlar solo dei morti – hanno dovuto provare tutte le amarezze e combattuto tutte le lotte dell’impopolarità, fino a vantar con orgoglio la loro solitudine.

“La sua zampogna suona, ma nessuno vuol danzare”, diceva Nietzsche dell’artista creatore nei giorni nostri. E poiché per i più deboli di volontà che non sono sempre anche i più deboli d’ingegno, ogni sconfitta è un principio di decadenza o di morte, il circolo vizioso tra il pubblico che disprezza l’arte perché la sente mediocre e l’artista che resta mediocre perché si sente disprezzato, sarebbe rimasto insanabile se non veniva un aiuto esterno. Questo apparve nel I895 con la prima Esposizione Internazionale a Venezia.

La prima Esposizione Internazionale d’arte

La vittoria immediata – morale ed economica – che ottenne la nuovissima impresa contro la scettica apatia dei più e specialmente degli stessi artisti, la risonanza che questa voce di speranza e questo richiamo fin oltralpe ed oltremare ebbero nel nome eterno d’Italia e di Venezia, mostrarono quanto fossero attesi.

Gli artisti “che operavano in questa classica terra”, per dirla nel gergo delle commemorazioni accademiche, si sentivano separati da tutto il movimento che negli ultimi sessanta e settant’anni aveva riformato forma ed essenza, tecnica e tema nella pittura e nella scultura contemporanee. La stessa distribuzione geografica dell’Italia e il torpore natio tenevano lontani dalla Germania, dalla Francia e più dall’Inghilterra dove progrediva quel rinnovamento iniziato dai pittori romantici, gli artisti della maggior parte della penisola.

Che esistesse una singolare pittura danese o svedese o norvegese o finlandese, che vi fossero, oltre Siemiradski, dei russi che dipingevano meglio di lui, che in Germania accanto a Lenbach s’alzassero colossi come Boecklin o Menzel o Liebermann o Leibl o Uhde, che l’America avesse dato all’Europa due meraviglie come Whistler e Sargent, nessuno del grosso pubblico sapeva e appena l’un per cento dei pittori ne favoleggiava come di meraviglie sperdute oltre il circolo polare e note solo a pochi esploratori arditi.

Henryk Siemiradzki.

Dall’Inghilterra si conosceva quel po’ di prerafaelismo che Sartorio nella sua prima maniera aveva diffuso illustrando in quadri e in disegni poesie di d’Annunzio; e molti lo confondevano col saponoso purismo dei Nazareni tedeschi – Overbeck, Corneliusm Veit, Schnorr – che avevano dato all’Italia i pallori del Minardi e del Mussini.

Johann Friedrich Overbeck.

Della Francia, i macchiajoli fiorentini – su l’esempio del Costa, del Signorini, e del Cabianca – credevano di aver annunciato l’ultimo verbo, seguitando a imitare da quasi trentacinque anni quei pochi saggi dei paesisti di Fontainebleau raccolti presso Firenze nella sua villa di San Donato, dopo l’esposizione parigina del I855, dal Demidoff. L’unico pittore straniero ben noto era il grande Fortuny, imitato tutti sanno quanto e come.

Mariano Fortuny, The Artist’s Children in the Japanese Salon, 1974.

La delibera del Comune

Il 19 aprile 1894 il Comune di Venezia dove allora era sindaco un artista, Riccardo Selvatico, deliberava di aprire ogni biennio una mostra d’arte, di assegnar subito diecimila lire di premio all’opera migliore, di destinare il possibile utile ad istituti di beneficenza cittadina. Il Consiglio provinciale e quello della cassa di Risparmio assecondarono con pronta generosità la bella idea, fissando ciascuno un altro premio di cinquemila lire. Parte dalla Giunta municipale, parte da un’assemblea di artisti fu eletta poco dopo una commissione per suggerire le norme direttive di quelle esposizioni. Ne facevano parte, con altri, Antonio Fradeletto, Pompeo Molmenti, Enrico Castelnuovo, il senator Papadopoli, Michelangelo Guggenheim, i pittori Fragiacomo Laurenti, Bezzi, de Maria, Sezanne, gli scultori Dal Zotto e Marsili. Essi intesero tutta la nobiltà dell’impresa che dovevano preparare, e con bella audacia proposero all’unanimità che le mostre dovessero essere internazionali.

Quella prima relazione della commissione diceva che “una mostra internazionale dovrà attirare maggiormente il pubblico con la fama degli illustri stranieri che vi concorreranno, porgerà a tutti gli intelligenti che non sono in grado d’intraprendere lunghi viaggi il modo di conoscere e paragonare gli indirizzi estetici più diversi, e arricchirà il patrimonio intellettuale dei giovani artisti paesani, i quali dall’opera dei loro confratelli d’altre nazioni si sentiranno tratti a concepimenti più larghi”.

Oggi la si può dire una vera profezia.

Ma quel programma per essere attuato richiedeva un’austerità rara nel nostro paese così facile agli accomodamenti, così debole davanti alle raccomandazioni e agl’intrighi dell’oligarchia parlamentare, così abbandonato, specialmente nelle cose dell’arte, al comando dei mediocri che ogni artista da anni per essere accettato e anche per essere premiato in una esposizione soleva, anche se ottimo e forte, far più affidamento sui difetti altrui che sulle virtù proprie. Infatti la stessa commissione stabilì di restringere col sistema degl’inviti, il numero delle opere, accogliendo solo un esiguo numero di quelle liberamente inviate, secondo il parere di una giuria riconosciuta autorevole dall’universalità degli artisti. Il sindaco di Venezia, presi ente della Commissione, si rivolse allora ai più eminenti artisti stranieri chiedendo loro di far parte d’un comitato di patrocinio.

E il segretario, onorevole A. Fradeletto, potè scrivere in breve che “le adesioni furono subito così numerose, così espansive, così calde di cordialità, da riempirci l’animo di fede, da farci testimonianza che il nome di Venezia suscitava sempre il sentimento antico, un sentimento misto d’inebbriata ammirazione e di intimità quasi domestica, in tutti gli spiriti devoti al bello, qualunque era il linguaggio che parlavano la patria alla quale appartenevano”.

Edward Coley Burne-Jones (1833-1898), Love among the Ruins (detail).

Poco dopo il consiglio cittadino a Venezia sanciva tutte le proposte della commissione consultiva; nel maggio del ’94 si cominciavano i lavori del nuovo edificio; nel comitato di patrocinio figuravano i nomi come Burne Jones, Puvis de Chavannes, Gustave Moreau, Munkacsy, Ludwig Passini, Kroyer, Van der Stappen, Zorn, Leighton, Millias, Alma Tadema, Sorollo, Villegas, Carolus Duran, Henner, Dubois, Liebermann, Uhde, Israels, Mesdag, Boldini, Morelli, Pasini, Monteverde, Cverde, Carcano, Michetti.

Gustave Moreau, The Dream of an Inhabitant of Mongolia, 1881.

E il primo maggio del 1895, tra la simpatia unanime dei maggiori artisti d’Europa, col grazioso intervento di re Umberto e della regina Margherita, Ia quale subito vide tutta la portata di quella idea geniale ed audace, fu inaugurata tra le acacie e le spirée e i roseti fioriti dei giardini, in vista della laguna azzurra e grigia, sotto la benedizione del sole che aveva acceso gli occhi di Veronese e di Tintoretto, di Tiziano e di Tiepolo, la prima esposizione d’arte internazionale a Venezia. E non fu che un coro di lodi.

Non fate guerra al maggio, cantava Lorenzo de’ Medici. E tutto un maggio di speranze, tutt’una fioritura di bellezza si schiudevano e ci inebbriavano, per l’Italia e per la nuova arte italiana.

Re Umberto I e la regina Margherita all’esposzione internazionale d’arte, Venezia 1895.

Dal governo centrale non venne altro sussidio che le compere per la Galleria Nazionale d’Arte moderna, le quali furono fatte una volta almeno con discernimento e con gusto, tanto la solennità dell’ora e del luogo aveva conquistato anche i più restii.

Esponevano venti scultori e duecentoquattordici pittori dei quali centoventitrè stranieri.

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