Pesci d’aprile nell’era della post-verità. Banksy è vivo, e continuerà a stupirci

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E così, abbiamo avuto anche noi il nostro bravo pesce d’aprile. Ce lo siamo confezionati in casa, stando bene attenti a rispettare alcune linee-guida che ci eravamo auto-imposti. La prima: spararla grossa, ma tenere il titolo un po’ sottotono. Non, dunque, “Hanno ammazzato Banksy”: sarebbe sembrato subito troppo sospetto (qualcuno avrebbe potuto ribattere, fulmineo: “chi sia stato non si sa, forse quelli della mala, forse la pubblicità”). E così abbiamo optato per un titolo più confuso, meno diretto, ma in fondo più cauto e dunque più plausibile: “Londra, trovato il corpo di un uomo ucciso a colpi di mattone. Scotland Yard dice: è Banksy”.

Seconda: arrivare, per una volta, buoni ultimi: proprio a un passo dal segnale di “fine dei giochi”, a pochi minuti dalla mezzanotte. Se, difatti, è stato il nostro ragionamento, nel corso di tutta la giornata le antenne dei lettori sarebbero state ben attente a “captare” segnali strani da parte di social e giornali, per riuscire a smascherare eventuali pesci d’aprile, verso mezzanotte, la mente già puntata alla notte ed eventualmente al domani, le difese sarebbero state abbassate. E infatti. In molti, nel nostro piccolo sondaggio, ci sono cascati, per lo meno a una primissima lettura (qualcuno, va pur detto, che Banksy lo conosce anche molto bene: eppure, potenza dell’effetto-sorpresa, ci ha messo una decina di minuti per attivare i suoi sensori d’allarme anti-pesce d’aprile – anche se un nome però va fatto, è doveroso: Sgarbi non ci è cascato neanche un minuto, ha risposto a strettissimo giro: “pesce d’aprile”. Sarà il fatto che di notte, come sa chi lo conosce bene, è anche più sveglio che di giorno: in ogni caso, chapeau).

Ora, perché è un pesce d’aprile, e perché proprio il “povero” Banksy? È presto detto. Quanto al pesce d’aprile, è un’antica tradizione, e le tradizioni, com’è giusto, vanno sempre rispettate. La storia è piena di casi di giornali che hanno imbastito pesci d’aprile esilaranti e irresistibili. Celebre, quello della BBC, la serissima rete televisiva pubblica inglese, che nel 1957 diede a bere ai propri lettori che in Svizzera fosse stata allestita una piantagione di alberi dai cui rami scendevano spaghetti. O ancora, quella del quotidiano francese Le Parisien, che il 1 aprile del 1986 scrisse che la Tour Eiffel sarebbe stata spostata a Disneyland. Piccoli colpi di genio del giornalismo solitamente inappuntabile, per un giorno solo divenuti inaffidabili (semel in anno licet insanire, recitava un proverbio latino: una volta all’anno è lecito impazzire).

Ora, prima di tornare a noi, va detto che anche questo 1 aprile del 2024 non è stato esente da scherzi: tra gli artisti, va segnalato il pesce d’aprile di TvBoy, uno dei più celebri tra gli street artist italiani, che la mattina di Pasquetta ha pubblicato un post che è suonato allarmante per i suoi followers e ancora di più per i suoi amici: sotto una foto del suo nuovo graffito, eseguito a Malaga pochi giorni fa, sulla parete del Museo Picasso, ha piazzato una foto di un titolo di un giornale, Europa Press, che recitava: “La policia Nacional detiene un hombre por hacer un grafiti en la fachada del…” (La polizia nazionale ha arrestato un uomo per aver fatto un graffito sulla facciata del…”). Il titolo, non finito, lasciava aperti dei dubbi e delle supposizioni, e più di un follower ha scritto, allarmato: “Tutto bene???”. Peccato che, a una ricerca più attenta, si sarebbe potuto scoprire che la notizia era vecchia (del 2018), e il titolo finiva in questa manieraù: “…en la fachada del Cementerio Inglés”. Dunque, niente arresto per TvBoy, che peraltro, in serata, nella sua storia instagram, aveva aggiunto alla foto del post anche un bel pesciolino.

Altro pesce, questa volta veneziano, quello del Museo Archeologico di Venezia, che ha lanciato uno scherzo stile Indiana Jones: durante i lavori di rifacimento sotto Piazza San Marco, gli operai al lavoro nel cantiere per il rifacimento della pavimentazione della piazza e la sostituzione dei masegni (i blocchi di pietra usati per la pavimentazione, ndr) usurati dal tempo, ha scritto il Museo in un post Facebook, hanno trovato resti fossili, “purtroppo incompleti”, di un dinosauro. “L’esemplare”, proseguiva il post, “risulta di una specie sconosciuta, forse si tratta dell’antico antenato degli odierni “cocai”, i feroci e voraci predatori pennuti stanziati nell’area marciana; perciò è stato classificato come Archaeosaurus Veneticus in onore del Museo Archeologico che ne custodirà i resti”.

Tornando dunque a noi, e al nostro finto scoop del primo aprile: perché un pesce d’aprile, oggi? E perché Banksy? In un’epoca in cui non diciamo l’informazione, ma la realtà stessa, sono continuamente e sempre più sotto la minaccia dell’inverosimiglianza, della mancanza di riscontri o dell’esistenza di “doppie verità”, quando non della costruzione a tavolino di “realtà parallele”, comprensive di “vere” fotografie ricreate dall’intelligenza artificiale, interrogarsi sul senso del vero e del falso, anche attraverso scherzi più o meno ben congegnati, ha un senso maggiore che nel passato. Non è un dato da poco, in momento in cui Trump, che dell’esistenza di realtà parallele, anzi, di un’epoca segnata da quella che in America viene chiamata post-truth, post-verità, è stato il padrone e il signore assoluto, si prepara (forse) a tornare al potere, e in cui il suo sodale Putin, che dalle grandi dittature del XX secolo, di cui è erede diretto, ha imparato la manipolazione dell’informazione a favore di una “realtà alternativa” (l’invasione dell’Ucraina non è un atto di guerra ma una “operazione militare speciale”, e l’attentato a Mosca da parte di miliziani dell’Isis è in realtà stato voluto da Kiev) sta rinvigorendo e preparando nuovi attacchi, in barba alle sanzioni e ai missili occidentali.

Ora, in tutto questo, perché Banksy? Perché Banksy è stato l’artista che, meglio di chiunque altro – e in questo sta la sua forza d’artista e il vero senso del suo lavoro, e non certo nelle banali trovatine da baci perugina delle immagini dei suoi lavori – ha saputo incarnare l’arte nel tempo della post-verità. È Robin Gunningham? È Robert De Naja? È un collettivo? Chi c’è dietro a lui? Come fa a farla sempre franca?

Soltanto pochi giorni fa, a latere della sua ultima opera, fatta ritrovare (come si fa ritrovare una refurtiva, o il cadavere di un uomo assassinato) in una via della periferia londinese, e poi “rivendicata” (come si rivendicano gli attentati terroristici) dal suo profilo Instagram, molti giornali (inglesi prima, e a seguire italiani, come pecoroni) hanno titolato: “Svelata l’identità di Banksy? In una foto (forse) il volto dell’artista”. Naturalmente, non era vero niente, e la notizia, benché apparentemente verosimile per via della somiglianza dell’uomo fotografato con una vecchia foto di Gunningham del 2008, era già stata smentita prima ancora che venisse pubblicata in Italia, ma tanto è il desiderio di trovare notizie inedite su Banksy, che alcuni giornali l’avevano comunque pubblicata. Bansky, va detto, mette il dito nella piaga di questa nostra contemporaneità: non, appunto, grazie alla sua semplicità iconografica e ai suoi messaggi ecumenici e buoni per ogni palato (chi, dopotutto, sarebbe contrario in via assoluta alla guerra, allo sfruttamento, alla violenza, all’inquinamento, etc., tutti temi denunciati da Bansky nei suoi lavori?), ma proprio per il suo metodo: colpire, fuggire, confondere e mescolare le acque, non dire mai le cose come stanno e alimentare, come Zorro, il mito intorno alla sua figura senza curarsi se la sua identità sia stata già ampiamente resa nota, e da tempo: l’importante, come si diceva da ragazzini quando si veniva presi con le mani nella marmellata, è “negare sempre” (e poi, come pare abbia detto una volta lo stesso Banksy, “a tutti interessa di Zorro, a nessuno interessa Diego de La Vega”).

Ecco allora che Banksy non poteva che essere il soggetto ideale per il nostro pesce d’aprile 2024. Perché le voci intorno alla sua figura, al suo lavoro, alla sua vicenda appaiono sempre un po’ irreali, e più sono irreali, più appaiono anche, come un paradosso filosofico difficile da dipanare, perfettamente verosimili. Ma le persone, al contrario di quel che diceva Brecht a proposito delle “società giuste”, hanno bisogno di eroi. Eroi che le facciano sognare e immaginare vie d’uscita e di fuga da una realtà che a volte può apparire dispotica, prima ancora che distopica. In un’epoca in cui tutti i nostri movimenti sono perennemente tracciati, in un cui ogni nostra azione, ogni espressione del viso, persino ogni sentimento è passibile di essere registrato, regolamentato, irregimentato, Banksy è quello che sfugge alle regole, che si mimetizza, si nasconde, scarta di lato ogni volta e non si fa mai prendere. Ogni voce su di lui è plausibile perché ogni aspetto della sua vicenda è apparentemente implausibile. L’importante, in una società sempre più meccanizzata e senza apparenti vie di uscite, è creare sempre versioni alternative a una storia che altrimenti parrebbe già scritta e già tracciata, è alimentare fantasia, immaginazione, colpi di scena, suspence, fantasticheria, capacità di scartare di lato, di giocare, di sognare.

Nell’epoca in cui nessuna verità è del tutto al sicuro dall’essere smentita da un’altra verità altrettanto verosimile, in cui ad ogni verità si contrappone una contro-verità, in cui le informazioni vengono usate come armi, Banksy è il Robin Hood che gioca con le informazioni e con le mille possibili verità (su di lui, sulla sua identità, sul suo lavoro, su come abbia potuto non farsi mai prendere, etc.) non per interesse, ma per gioco, per sberleffo, per spasso. Per burlarsi di noi, del sistema, dei media, della verità e della non-verità. In definitiva, per partecipare a quel grande gioco senza scopo che è appunto l’arte.

Ecco perché ci piace, ecco perché è l’artista forse più importante di quest’epoca confusa e incerta. Per fortuna è vivo, e il nostro è stato solo uno scherzo.

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