Gianfranco Asveri, le Favole da cortile di un pittore-cantastorie

Gianfranco Asveri vive “in una bicocca a sua misura”, raccontava anni fa uno storico dell’arte che lo ha conosciuto bene e ne ha seguito il lavoro, Marco Rosci (scomparso nel 2017), “sulle prime pendici fra la piana padana e l’Appennino fra il Trebbia e l’Adda, in quell’angolo alto piacentino, incuneato fra Lombardia, Piemonte e Liguria, che proprio per questo è e si sente orgogliosamente emiliano”. E non è allora un caso che sia sempre qui, nel profondo cuore dell’Emilia, a pochi chilometri da dove abita l’artista, nella bellissima cornice del Palazzo del Podestà di Castell’Arquato, che oggi una trentina di suoi lavori, realizzati fra il 2011 e il 2024, sono raggruppati per la mostra “Gianfranco Asveri. Favole da cortile”, curata da Silvia Bonomini e Sandra Bozzarelli e aperta fino al 12 maggio.

E profondamente calato nel territorio, nelle tradizioni, nei paesaggi della sua Emilia, questo artista solitario, autentico, dallo stile inconfondibile e pressocché unico, lo è fino in fondo, ben radicato com’è nella sua terra fin da quando, bambino, scorrazzava per la stessa campagna piacentina che oggi fa da sfondo, come trasformata da un ghirigoro infantile, a tutto il suo lavoro. Eppure i punti di riferimento e i maestri con cui Asveri ha avuto il coraggio di cimentarsi sono altri, ben lontani dal tracciato della via Emilia. Sono i segni veloci e immediati di un Jean Dubuffet o di un Mirò, o il colore acceso della tavolozza di un Nicolas de Staël. Per arrivare ad accostamenti con altri artisti italiani, bisogna invece risalire ai colti grafismi di Gastone Novelli, o agli strabordanti dipinti di Mattia Moreni.

Gianfranco Asveri, Favole in viaggio, 2016.

La pittura di Asveri è infatti popolata (così come lo è la mostra presentata oggi al Palazzo del Podestà di Castell’Arquato, dal titolo, più che mai eloquente, “Favole da cortile”) di strani animali dalle lunghe corna, di improbabili giraffe e di cavalli che trottano sulle pendici di un monte appena accennato, di gufi, mucche, bambini dalla maglia a strisce che sognano una spiaggia assolata. Lo stile con cui ogni soggetto è reso è quello apparentemente elementare di una raffinatissima naivetè, che cerca, con la semplicità e la rudezza del segno, di risvegliare quel grumo di poesia che ognuno si porta dietro fin dalla prima infanzia. I suoi personaggi sembrano infatti usciti da una qualche fiaba per bambini, dove gli animali hanno le stesse emozioni degli uomini, e il mondo è circoscritto in poche, semplici tracce di colore.

Gianfranco Asveri, Abracadabra, 2024.

Vissuto prima in campagna e poi, dopo la morte del padre, nella solitudine claustrofobica di un collegio, Asveri ha cominciato a dipingere tardi, verso i trent’anni, cercando “dentro di sé”, nella propria memoria “martoriata”, come la definisce lui, lo stimolo e la poesia con cui parlare al mondo. “Quando gratti dentro di te, trovi i fili scoperti, e senti la scossa”, dice il pittore. Ma per arrivare a riuscire a rappresentare il suo mondo, e a farlo diventare mestiere, apprezzato e ampiamente riconosciuto, di strada dovrà farne tanta, in un ambiente in cui “fare il pittore” poteva tutt’al più essere un hobby, e mai un lavoro serio (“una mia zia”, raccontò una volta il pittore in un’intervista, “mi chiedeva sempre: l’hai trovato un mestiere o sei ancora dietro a dipingere?”). Ma, testardo e tenace, col tempo c’è riuscito, e oggi “il suo mondo”, dopo aver riconosciuto riconoscimenti un po’ in tutta Italia e all’estero, si può trovare in musei e collezioni importanti.

Gianfranco Asveri, Il bambino birichino, 2018.

Nato a Fiorenzuola d’Arda, in provincia di Piacenza, “tra la via Emilia e l’west”, per dirla con le parole di Francesco Guccini, in una famiglia poverissima e numerosa, e cresciuto per gran parte della sua infanzia e adolescenza in orfanotrofio per le difficoltà economiche della madre, che, dopo la morte del marito, non poteva più permettersi di sfamare tutti i figli, Asveri sembra aver fatto della lezione più dura e dolorosa dell’esistenza un modello di riscatto, di rielaborazione gioiosa, magica e quasi fiabesca della vita.

Gianfranco Asveri, Il circo all’aperto, 2018.

Il suo stile esplosivo, giocoso ed esuberante è il risultato di una profonda ricerca che si snoda, con coerenza e con grande consapevolezza stilistica attraverso gli anni (giungendo, come già insegnava Picasso, a “dipingere come un bambino” solo dopo aver molto studiato e molto praticato la storia dell’arte e la lezione imprescindibile delle sperimentazioni e delle decostruzioni del linguaggio operate dalle avanguardie storiche), dapprima in un’indagine di taglio esistenzialista, con intenti ed echi fortemente drammatici e una pennellata solida e corposa, dai toni brumosi e dai tratti vagamente espressionisti, quasi volesse scarnificare l’uomo nella sua sofferenza interiore e nella sua drammatica e inesorabile condizione di solitudine interiore; poi, piano piano, avvicinandosi a una diversa e sempre più originale idea di rappresentazione, più complessa, movimentata e giocosa, in cui il colore prende via via maggiormente piede e la necessità di raccontare, con uno stile leggero e vigoroso, le storie che vede e che sente nella sua quotidianità, diviene il suo modo di restituire a se stesso e al mondo la propria gioia di esistere, e il suo mezzo per riaprirsi al creato e per riconsegnare ad esso i doni che ha ricevuto.

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