Biennale e dintorni. Sempre più spazio alla marginalità con artisti folk, popular, outsider e indigeni

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Howard S. Becker, sociologo statunitense, fu il primo studioso a inglobare all’interno della sua analisi sistemica gli artisti folk, popular e naïf. Altri, prima di lui, avevano già definito le caratteristiche peculiari dell’outsider: Cezanne, ad esempio, visse ai margini della società che lo accolse quale artista riconosciuto solamente in tarda età. La Biennale di Venezia 2024, come dichiarato dalle parole del curatore Adriano Pedrosa, si sofferma sull’indagine contemporanea di ciò che è “straniero”: dovunque il nostro occhio si posa la differenza fra il proprio sé e l’altro produce conoscenza e consapevolezza nuova. Ecco, dunque, il confine dove avviene l’incontro: non più frontiera, ma spazio di cooperazione e co-costruzione nuova del mondo.

La Biennale propone il lavoro di chi, lontano dalle logiche predominanti della società consumistica, dedica la propria esistenza ad un “fare arte” differente dalla Norma. Gli artisti indigeni proclamano il loro diritto di esposizione al pari di chi fu privilegiato secondo un pensiero colonialista e soppressivo. Gli artisti folk, detti anche popular, portano avanti sequenze formali estese nel tempo ibridandole con tecniche contemporanee allo scopo di far sopravvivere l’essenza stessa dell’arte comune al passato, presente e futuro. È necessario allargare il nostro sguardo in direzioni molteplici che sappiano abbracciare le differenti origini, storie e modalità di produzione che a primo acchito sembrano aliene, distaccandosi da assunti stereotipati che contaminano una lettura dell’opera cosciente. 

Madhvi Parekh

L’esposizione corollaria di Ydessa Hendeles: Grand Hotel, nello Spazio Berlendis di Cannaregio, indaga il tema dell’identità culturale, dell’esodo, del trauma intergenerazionale nato dalla sofferenza segregazionista di cui la famiglia dell’artista fu vittima. L’opera cerca di indagare e ricostruire quel legame con il passato perduto a causa di una storia di persecuzione e migrazione che cancella i residui di una vitalità vissuta. Di grande interesse è l’esposizione collettiva The Spirits of Maritime Crossing, propugnato da Bangkok Art Biennale Foundation al Palazzo Smith Mangilli Valmanara. L’opera presenta il lavoro plurimo di artisti provenienti dall’Asia meridionale e si propone di riflettere sui movimenti culturali, simili al movimento stesso dell’acqua e dell’oceano inesplorato, intricati nelle differenti tradizioni culturali e artistiche di quei luoghi. In Cosmic Garden, le artiste indiane Madhvi Parekh, Manu Parekh e Karishma Swali rileggono in chiave contemporanea le tradizioni artigiane e indigene del loro Paese natio, mediante un approccio multidisciplinare. L’artista messicana Betsabeé Romero, nell’esposizione all’Istituzione Fondazione Bevilacqua La Masa, dal titolo The Endless Spiral, riflette sul concetto di migrazione, di confine imposto, sulle sofferenze di cui fui oggetto il suo territorio di nascita e che si legano necessariamente alla sopravvivenza della memoria culturale del popolo.

Un’opera di Betsabee Romero

Nell’antologica di Shahzia Sikander: Collective Behavior, l’artista rielabora le narrazioni visive dell’Asia meridionale attraverso una prospettiva che si serve di numerose tecniche artistiche sopravvissute fino ai giorni nostri. Differenti metodologie decorative, come il mosaico, al servizio di un’indagine sotterranea che struttura la riflessione su questioni di genere, sull’identità, sulla marginalità dell’essere non occidentale nell’ottica decolonialista di immagine.

Parul Thacker, The-Labyrinth, 2012

Per non perdere il filo. Karine N’guyen Van Tham – Parul Thacker a Fondazione dell’Albero d’Oro, presenta una rilettura nuova delle tecniche espressive popular: la tessitura, il ricamo e l’intreccio sono stati a lungo relegati al puro artigianato e la lotta per il loro riconoscimento quale Arte al pari delle altre sopravvive ancora in determinati contesti espositivi. L’opera di Madang in Where We Become Us utilizza la musica e il canto popolare, legato ai riti sciamanici dei territori della Corea meridionale-occidentale, per ricostruire il suono perduto della “gente del popolo”, per riflettere sull’identità che pone le proprie radici nelle tradizioni di passaggio orale. Lee Bae, in La Maison de La Lune Brûlée, connette la propria opera al Daljip Teugi, un rito secolare strettamente legato al ritmo circolare della terra, intrecciando in tal modo folklore e arte contemporanea. È la connessione dell’umanità con la natura, sempre presente nella storia di ogni cultura, al centro di tale esposizione. 

Lee Bae Studio, La Maison de la Lune Brûlée

Gli eventi corollari della Biennale di Venezia presentano in chiave consapevole e coerente la marginalità del sentire artistico: ciò che viene ammesso nelle grandi traiettorie di esposizione può quindi evadere dai canoni definiti e operare in direzione di una libertà espressiva nuova. È necessario, in questo secolo di decolonizzazione dello sguardo, che ci si appropri dello spazio artistico secondo modalità di narrazione che ascoltino nel profondo l’identità multiculturale e ibrida dell’essere umano. La dinamicità sottesa all’esistenza si proietta nel cambiamento d’immagine e forma: la tradizione, nel senso di comune sostrato organico, offre al seme trasformante radici stabili, contribuisce alla sua crescita nella metamorfosi clorofilliana che è la vita.

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