Biennale, assenti Russia e Marocco, mentre Polonia e Cile affrontano ostacoli e cambi di rotta

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Negli ultimi anni abbiamo assistito a forti prese di posizione nell’ambito delle arti e dello spettacolo, nessun palco o spazio espositivo internazionale escluso.

In occasione della 60° Biennale di Venezia la cultura non si sottrae alle questioni geopolitiche e prende decisioni, a volte discutibili, ma sicuramente complicate. Mentre le angoscianti immagini della popolazione civile e dei territori devastati scorrono ininterrottamente sugli schermi di tutto il mondo, la guerra che ha coinvolto Israele e Hamas sembra dilagare anche in altri ambiti. Il conflitto israeliano-palestinese ha spaccato in due il mondo della cultura, diviso tra chi appoggia Israele e chi denuncia i terribili crimini di guerra in atto nei territori palestinesi segnando inevitabilmente quest’edizione della Biennale.

Un possibile Padiglione nazionale della Palestina rimane una questione controversa, in quanto solo 138 dei 193 Stati membri delle Nazioni Unite riconosco il Paese. Tuttavia, il rifiuto del progetto presentato dal Palestine Museum ha rappresentato un deciso schieramento iniziale, sopratutto se consideriamo il giorno in cui questo è arrivato, il 20 ottobre, a sole due settimane dai fatti che hanno acceso il conflitto.

Se il Padiglione di Israele sarà allestito con la partecipazione dell’artista Ruth Patir e delle curatrici Mira Lapidot e Tamar Margalit, la Palestina troverà spazio solo negli eventi collaterali con il progetto presentato da Artists and Allies of Hebron, organizzazione con sede in Cisgiordania e Berlino. Dopo il rifiuto della proposta del Palestinian Museum ben 8mila artisti avevano firmato una lettera di supporto al popolo palestinese, immediatamente seguita da una dura replica israeliana, causando una situazione di stallo.

Adam Broomberg & Rafael Gonzalez, 2023.

La recente inclusione di un progetto espositivo palestinese nel programma degli eventi collaterali sembra quindi aver sciolto l’impasse ottenendo il favore della comunità internazionale. “Anchor in the Landscape” sarà il titolo della mostra che verterà su un tema ancestrale per la comunità palestinese: l’ulivo. Quest’albero svolge un ruolo totemico per l’identità dei Palestinesi e rischia di essere spazzato via dall’incessante quantità di conflitti armati che affliggono regolarmente la regione.

Lo scopo dell’esibizione è quindi denunciare, attraverso una serie di fotografie di Adam Broomberg e Rafael Gonzalez, la ferita causata dalla perdita del patrimonio botanico che caratterizza da sempre queste terre evidenziando come, dal 1967 ad oggi, siano già stati distrutti 800.000 ulivi palestinesi.

Un’altra protagonista della politica estera ha fatto parlare nuovamente di sé, per la seconda volta consecutiva la Russia non parteciperà alla manifestazione. Nel 2022, il Paese avrebbe dovuto partecipare ma, a soli pochi giorni dallo scoppio della guerra russo-ucraina, i due artisti Alexandra Sukhareva e Kirill Savchenkov e il curatore lituano Raimundas Malašauskas decisero di chiudere il padiglione e di non inaugurare dunque la mostra “914”. Nonostante non siano state rilasciate altre dichiarazioni, anche quest’anno la Russia non figura nella lista delle 90 partecipazioni nazionali e il padiglione realizzato da Aleksej Ščusev rimarrà quindi sigillato.

Presenzierà invece l’Ucraina, che presenterà la mostra “Net Making“, a cura di Viktoria Bavykina e Max Gorbatskyi, con opere di Katya Buchatska, Andrii Dostliev, Lia Dostlieva, Daniil Revkovskyi, Andrii Rachynskyi e Oleksandr Burlaka.

Safaa Erruas

Le notizie scioccanti di quest’edizione includono anche ritiri e cambi di rotta dell’ultimo minuto. Lo scorso 15 gennaio, il Marocco ha annunciato il suo ritiro dalla Biennale dovuto alla decisione del Ministro della Cultura marocchino che ha sollevato i curatori Mahi Binebine, Imane Barakat e Mostafa Aghrib dalla partecipazione alla rassegna lagunare. Un abbandono caduto nel vuoto istituzionale senza comunicazioni ufficiali che possano giustificare il passo indietro. Erano già stati spesi quasi 50mila dollari per la realizzazione del progetto. Uno dei tre artisti selezionati, Safaa Erruas, ha dichiarato di aver affittato un laboratorio e coinvolto svariati assistenti nell’ideazione e la creazione di un’installazione colossale dall’altezza di 13 metri, che avrebbe dovuto presentare per la prima volta a Venezia. Il progetto ritirato indagava “ciò che è strano”, diverso da noi, attraverso i punti di vista di tre artisti: Khatari, Erruas e Zamouri.

Accanto a chi ha abbandonato la Biennale c’è chi ha rivoluzionato radicalmente la proposta presentata in origine. Ne sanno qualcosa Polonia e Cile, due Paesi molto lontani a livello geografico, ma accomunati da un cambiamento radicale dei propri padiglioni nazionali.

Uno stravolgimento elettorale ha determinato la scelta del nuovo ministro polacco della Cultura, Bartlomiej Sienkiewicz, di ritirare la proposta polacca a favore della video-performance «Repeat After Me» del collettivo ucraino Open Group. Progetto che comprende una performance video con un’installazione che mostra dei rifugiati ucraini mentre condividono storie di guerra tramite dialoghi parlati disturbati dai rumori del conflitto: bombardamenti, spari, sirene e raid arei. Il progetto iniziale e poi sostituito intitolato “Esercizi polacchi nella tragedia del mondo: tra Germania e Russia”, del pittore Ignacy Czwartos, era stato definito “un manifesto antieuropeo” dalla critica d’arte polacca Karolina Plinta.

Ignacy Czwartos.

Esposti avrebbero dovuto esserci una serie di dipinti capaci di colpire sia la Germania che la Russia, palesando i vari maltrattamenti “subiti” dalla Polonia nel corso della storia moderna, tra cui un quadro raffigurante l’ex cancelliera tedesca Angela Merkel unita a Vladimir Putin da una croce di Sant’Andrea modificata per sembrare una svastica. Czwartos ha urlato alla censura, dichiarando come il progetto si riferisca anche all’attualità, soprattutto al brutale attacco del presidente russo all’Ucraina. Ciò nonostante, il tono nazionalista della mostra è stato considerato in ampio disaccordo con il tema inclusivo della 60° edizione, “Stranieri ovunque”, confermando le opinioni di Plinta ribadite dalla stessa giuria che ha dichiarato come la mostra rappresentasse una “posizione di mentalità ristretta, ideologicamente paranoica e vergognosa”.

Dall’altra parte del mondo anche il Cile non ha attraversato un processo di selezione tranquillo e indiscusso. Problemi logistici e spazi prenotati seppur occupati dai lavori di restauro avevano spinto la curatrice Gabriela Rangel e l’artista Patrick Hamilton a diffondere una lettera di protesta, seguita dalla rinuncia degli artisti León & Cociña, autori di un altro progetto considerato, e dalle dimissioni di Alessandra Burotto a capo della segreteria esecutiva di Arti Visive.

León & Cociña.

Vicenda travagliata che pareva destina a non avere lieto fine. Dopo gli annunci di Burotto e Carolina Arredondo, ministra della Cultura cilena, è giunta la pretesa di quattro ideatori dei cinque progetti rimasti che hanno chiesto l’eliminazione dello spettacolo commemorativo del colpo di stato del 1973, dato che non ne erano a conoscenza al momento della richiesta di partecipazione. La nomina definitiva è quindi ricaduta sul progetto di Valeria Montti Colque, artista nata in Svezia da genitori cileni dissidenti, a cura di Andrea Pacheco e prodotta da Carola Chacón, scelta che ha sollevato non poche polemiche nel panorama artistico cileno, dal momento che l’artista può vantare solamente due mostre personali.

Padiglioni chiusi, progetti controversi, cambi di rotta: dalla Russia alla Polonia fino al Marocco, ecco i padiglioni che alla Biennale non vedremo.
Valeria Montti Colque.

Inoltre, come hanno sottolineato alcune testate nazionali, Montti è nata a Stoccolma da genitori cileni in esilio e vive nella capitale svedese. Ciò significa che è la prima artista cilena non nata nel Paese a rappresentarlo alla Biennale. Alcuni hanno addirittura accusato il suo progetto di conflitto di interessi, in quanto Chacón lavora al Museo Cileno di Arte Contemporanea di cui il direttore, Daniel Cruz, è membro della giuria del Padiglione cileno. Pacheco gestisce un programma di residenza a Madrid di cui un’altra giurata, Amanda de la Garza, è stata in precedenza curatrice ospite. Altri ancora hanno fatto notare come Montti risiedesse in uno spazio gestito da Juan Castillo, anch’egli parte della giuria. La partecipazione cilena alla Biennale rimane quindi circondata da un velo di sospetto che solo la fantasia geopolitica di Valeria Montti Colque potrà mettere a tacere. Perno dell’allestimento del padiglione sarà un’installazione su larga scala a forma di montagna, “Mother mountain”, circondata da video-proiezioni, ceramiche e da un monumentale tessuto con stampa figurativa. Montti Colque è discendente degli Aymara, una delle popolazioni indigene delle Ande sudamericane e dell’Altiplano della Bolivia e del Perù, la sua ricerca artistica è influenzata dall’idea della montagna come luogo di riposo degli antenati. Inoltre, si collega anche ai Fjelds, catena montuosa nel nord della Svezia, dove spera che la sua anima possa un giorno trovare un luogo dove giacere in pace.

Si promette quindi un’edizione intricata e di cui sentiremo parlare in lungo e in largo, anche prima dell’inaugurazione, colma di colpi di scena e progetti inediti dal forte impatto socio-culturale.

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