Una collettiva tutta al femminile alla galleria Renata Fabbri

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Una collettiva tutta al femminile alla galleria Renata Fabbri

La galleria Renata Fabbri arte contemporanea nasce con l’obiettivo di mostrare a un pubblico sempre più interessato e attento le molteplici espressioni dell’arte contemporanea. Nell’ambito della sua ricerca, la galleria vuole valorizzare il significato del rapporto tra arte contemporanea – intesa come ricerca e sperimentazione a oltranza – e il linguaggio di quella che può dirsi ormai “tradizione”, sia pure come una “tradizione del nuovo”. In altre parole: porre in relazione in modo stimolante e vitale la storia del XX secolo, come insieme di idee e di atti creativi sedimentati nel tempo, e il presente dell’arte e i suoi vari modi di essere “attuale”. Una ricerca della “modernità” e della sua essenza attraverso il lavoro di diverse generazioni di artisti, tutti a loro modo intenti a cercare di comprendere ed esprimere la complessità di ciò che potrebbe forse ancora chiamarsi “bellezza”, magari attraverso stili inediti, inattesi e sorprendenti.

Goldschmied & Chiari, Enjoy #1, #2, #3, 2006, stampa lambda, 40 x 60 cm courtesy l’artista

 

Da Lunedì 7 Maggio a Sabato 7 Luglio 2018, presso la sede espositiva di via Stoppani, 15/C di Milano, la galleria Renata Fabbri Arte Contemporanea presenterà la mostra “Searching for myself through remote skins”, una collettiva tutta al femminile che affronta temi legati alla rappresentazione ed esperienza del corpo femminile nella società contemporanea.

Si tratta di un progetto curato da Bianca Baroni che riunisce il lavoro di nove artiste internazionali quali Rebecca Ackroyd, Gabriele Beveridge, Bea Bonafini, Irene Fenara, Beatrice Gibson, Lydia Gifford, Goldschmied & Chiari e Catherine Parsonage.

Ispirato dal celebre testo di Luce Irigaray “Elogio del toccare”, il titolo della mostra indica l’esperienza fisica dell’altro come premessa fondamentale nell’articolazione del sé. In alcuni dei passaggi più salienti che scandiscono questo breve trattato di Irigaray, l’autrice suggerisce che il tatto non sottenda semplicemente l’incontro intimo con il prossimo, ma sia innanzitutto strumentale alla definizione della propria identità. Il processo di individuazione della propria natura attraverso un’esperienza propriamente tattile viene qui immaginato come un vero e proprio un percorso, un viaggio attraverso il paesaggio del corpo e il suo habitat sociale, due territori al contempo esotici e familiari.

Catherine Parsonage, Untitled (She was like none of these), 2018, acrilico su tela, cm 28 x 35 courtesy l’artista

 

Partendo da alcune delle proposizioni chiave che scandiscono il contributo teorico di Irigaray, la mostra propone un dialogo tra pratiche artistiche che, incarnando linguaggi e ricerche differenti, manifestano una sensibilità condivisa rispetto al concetto di intimità. Le opere in mostra sottendono approcci e prospettive diverse rispetto a tale concetto, mettendo in evidenza le reciprocità e contraddizioni che lo caratterizzano, sia all’interno della sfera personale e creativa di ciascuna autrice, che nel più ampio contesto culturale in cui ciascuna di esse opera.

All’interno del progetto, l’esplorazione di tale dimensione tattile si manifesta nei gesti che definiscono il processo artistico. Al contempo si riflette nella scelta di materiali e oggetti concepiti in relazione al corpo e alle ritualità domestiche che lo coinvolgono. Tuttavia, la mostra si sviluppa anche lungo traiettorie diametralmente opposte, tali da ribaltare la presunta correlazione tra il tocco e l’articolarsi di un rapporto intimo. In alcune delle opere in mostra l’esperienza tattile viene infatti completamente astratta rispetto alla dimensione corporea per divenire pura suggestione. In certi casi la rappresentazione del corpo ricalca la simulazione di una fisicità – o meglio – la sensazione tattile di una superficie corporea. In altri casi tale rappresentazione si focalizza su un particolare aspetto del corpo che, alienato dalla totalità del proprio apparato, diviene fulcro di una composizione a sé stante.

Muovendosi così su diversi livelli concettuali e visivi, la mostra decostruisce ed immagina l’idea di intimità attraverso una negoziazione fluida tra la realtà del corpo e la sua erotizzazione, tra immaginari artistici e popolari, tra dimensione pubblica e privata, tra narrative storiche e fantascientifiche, tra la definizione del se’ e la sua dissoluzione attraverso lo spazio digitale.

Irene Fenara, photo from surveillance camera, 2018. Courtesy l’artista

 

 

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