Lauretta, cinquanta sfumature di grigio

Getting your Trinity Audio player ready...

Ancora pochi giorni per vedere la mostra di Francesco Lauretta alla Galleria Giovanni Bonelli di Milano.Visionario equilibrista, Francesco Lauretta classe 1964, anno del dragone per l’oroscopo cinese, è considerato uno dei più valenti pittori della sua generazione. Dalla Sicilia nella seconda metà degli anni Ottanta si trasferisce a Venezia, per poi frequentare l’enclave artistica di Torino e infine stabilirsi a Firenze, dove attualmente vive. L’artista ha abituato il pubblico a mostre che non sono semplici esposizioni, ma vere e proprie installazioni dove ogni elemento quadro, scultura o performance definisce e visualizza un concetto. Anche questa mostra è quindi occasione di confronto e riflessione: Lauretta si interroga e si mette in dubbio in maniera totale sul tema del grigio con una virtuale conversazione con il maestro Cézanne. In questo viaggio cromatico proposto da Lauretta il grigio non è più il colore dell’indifferenza ma diventa veicolo per esprimere l’essenza della realtà. I soggetti sono tratti dall’esperienza diretta dell’artista: si tratta di momenti di vita dell’ultimo anno, le residenze artistiche, i simposi di pittura ed “estratti” da opere di Cézanne replicate a partire da fotocopie in bianco e nero. Un affresco della vita con le mille sfaccettature del grigio che risulta vivo e vibrante e non piatto e noioso come si potrebbe pensare. Tutti e diciassette i lavori presenti per questa mostra da Bonelli sono stati eseguiti durante il 2023: agli otto Noi, Cézanne si affiancano, della stessa dimensione, un Noi, Picasso mentre si passa a tele più grandi per altre figurazioni più vicine (il sagrato di una chiesa siciliana, un grande crocifisso, bagnanti su una piattaforma di fronte al Mediterraneo) a quel che si conosce di Lauretta. La fascinazione verso la pittura si rivela a partire dal 1992, Lauretta diviene un abile conoscitore di questo mezzo, eppure nutre con esso un rapporto sempre più tormentato, che dapprima lo porta a definirsi “pirandellianamente” pittore e poi “ingegnere”.

Nell’intervista esclusiva che ci ha rilasciato, si racconta e ci racconta.

Definirti un semplice pittore credo sia fuorviante, il tuo approccio è pluridisciplinare, o meglio intellettuale?

Credo sia l’approccio giusto, perché io non nasco pittore, sono diventato pittore. La mia prima mostra di pittura consapevole l’ho fatta che ero già adulto, avevo 36 anni, però l’ho sempre studiata, mi interessava capire come affrontarla.

Non eri certo avvantaggiato, la tua generazione è cresciuta a pane e Transavanguardia dove la pittura era tabù. Da dove nasce, quindi, la tua voglia di dipingere?

Sono stato un po’ un girovago in quegli anni, a Roma ho studiato con Emilio Vedova, a Venezia con James Lee Byars e poi sono approdato a Torino come assistente di grandi artisti dell’arte povera come Pistoletto. E come ricordavi tu lì la pittura era tabù. Già a fine anni Ottanta, però, si pensava a una reazione, nascevano le linee diciamo così post-concettuali e anche un neorealismo.

Tu eri già pronto per questo cambiamento?

Le mie prime prove come artista erano olfattive, ero rimasto influenzato da ciò che avevo imparato da James Lee Byars, lui diceva “Toccare e contaminare”, la sua ricerca era improntata sull’ idea della perfezione. Per me all’epoca la pittura era lettera morta, condizionato anche dal pensar comune di artisti e galleristi. Però mi aveva sempre incuriosito la famosissima frase di Duchamp “stupido come un pittore”. E mi chiedevo perché uno come Duchamp definisse stupidi i suoi contemporanei, che poi erano Picasso, Matisse etc.

Quindi, dobbiamo ringraziare Duchamp se hai cominciato la tua avventura come pittore?

È proprio da quella riflessione che ho iniziato la mia indagine, che sboccia nei primi tentativi, diciamo così, analitici, su quella che avevo chiamato le fotocopie, che erano delle riproduzioni di quadri famosi su delle tavole laccate, usando il bianco e nero. Erano le prime riflessioni per tornare alla pittura, io li chiamo dei requiem, erano complicatissime, dovevo rifare la trama delle fotocopie, perché non c’era il digitale.

E poi è arrivata la tua seconda personale.

Fu il gallerista Carbone che insistette perché io provassi a dipingere. Realizzai una serie di opere con protagonista il cibo, piatti in grandi formati tutti in bianconero, non ancora il grigio, che richiamava la fame, per cui toglievo quella patina, diciamo così, glamour.

Poi c’è stato “l’incontro” con il filosofo tedesco Peter Sloterdijk.

È stato fondamentale, lo seguo dagli anni Ottanta perché lui ogni tanto scriveva dei saggi su Flash Art. Ha sempre scritto delle cose abbastanza coraggiose, un provocatore però anche molto raffinato nelle sue provocazioni. Intorno al 2013 ho realizzato una grande personale a Palermo alla GAM partendo dalle sue riflessioni, che avevo chiamato “Esercizi di equilibrio; Una nuova mostra di pittura; Inesistenze”.

Anche quest’ultima mostra ti è stata ispirata dalla lettura, in particolare di Grigio. Il colore della contemporaneità, libro in cui il filosofo tedesco Peter Sloterdijk spiega perché questa è la tinta della nostra epoca.

Il grigio era un colore che odiavo, ma dopo aver letto questo saggio ho capito che c’erano delle cose molto interessanti e urgenti. E da lì è nata appunto l’idea della mostra da Bonelli. La partenza è proprio dalla geniale intuizione di Cézanne, secondo cui non è un vero pittore chi non ha dipinto in grigio.

Non è la prima volta che nelle tue esposizioni la pittura è accompagnata dalla scrittura. In “Grigio Contemporaneo”, al visitatore viene offerto non il testo di un critico, ma undici brevi lettere che indirizzi a Paul Cézanne. 

Come ti accennavo, le mie prime personali erano composte da opere olfattive, dove la scrittura era dominante. In quella fatta alla Galleria Noire ad esempio, “Percorso dal profumo”, mettevo a disposizione del pubblico delle cartoline che si aggiungevano nel corso della mostra. 

Anche qui sei stato ispirato da un grande filosofo Derrida, la complessità del suo pensiero giocata esattamente sull’ambivalenza delle parole e sui significati che queste portano nella scrittura.

Le cartoline, infatti, hanno qualcosa di intimo che viene svelato, per loro stessa natura, non vengono imbustate, così da poter esser lette da chiunque durante il tragitto, luogo nel quale si possono anche perdere. Era una cosa affascinante e da allora la scrittura ha sempre accompagnato il mio lavoro. La scrittura diventa un’ulteriore opera che si aggiunge al lavoro pittorico. Solo la pittura mi sta come una maglietta stretta.
Da sempre quotidianamente impegno un’ora della mia giornata alla scrittura, per cui tutti i miei lavori in qualche modo hanno inizio dalla scrittura e poi vengono tradotti con la pittura.


Quindi non c’è niente di casuale nei tuoi lavori?

Non so se è un bene o un male, ma sono lavori che covano nel tempo. C’è un filo che lega i miei primi lavori in bianco e nero ai grigi di oggi. Ho usato tutte le cromie possibili e questa cosa mi ha affascinato. E quel colore che prima odiavo oggi è diventato centrale. Il grigio è stato fatale.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Artuu consiglia

Iscriviti alla Artuu Newsletter

Il Meglio di Artuu

Ti potrebbero interessare

Seguici su Instagram ogni giorno