Primo Maggio, il lavoro nell’arte, tra mitologia e alienazione. Dal Quarto Stato a Banksy

Primo maggio, festa del Lavoro. Anche l’arte ha spesso celebrato il lavoro. A cominciare dal realismo sociale ottocentesco, allorché i lavoratori cessano di essere degli “invisibili” per la storia dell’arte, entrando a pieno titolo tra i soggetti sia della letteratura che della pittura. Dal Quarto Stato di Pellizza da Volpedo alle Spigolatrici di Millet, passando per Gli spaccapietre di Courbet, l’Ottocento è il secolo della riscoperta del valore e della dignità del lavoro. Oggi, però, anche il lavoro è cambiato: e col lavoro sono cambiate le pratiche di sfruttamento, di oppressione, di alienazione. Le dinamiche di lavoro si sono parcellizzate, fluidificate, mimetizzate. E così anche la sua rappresentazione è fatalmente cambiata. Ecco una carrellata d’arte a tema lavoro, dall’Ottocento ai giorni nostri.

Pellizza da Volpedo e il realismo sociale

Giuseppe Pellizza da Volpedo, Il Quarto Stato, 1901, olio su tela, cm 293×545 (particolare).

È il simbolo stesso della celebrazione del lavoro, e delle idee di riscatto sociale nate nell’Ottocento, col loro carico di rivendicazione di dignità, lotta per i diritti, coscienza di classe. È volutamente un’opera carica di simbologie, che evoca una forza, quella operaia e contadina ottocentesca, determinata nel difendere lavoro e dignità ma non violenta, in marcia simbolica non solo per la rivendicazione dei propri diritti ma anche verso un simboolico, e utopico, “Sol dell’avvenire”. Pellizza inizia a pensare al soggetto nel 1891, dopo aver assistito a una manifestazione operaia. Prima di mettere mano alla versione definitiva, il pittore realizzerà alcuni bozzetti di grandi dimensioni, Ambasciatori della fame e Fiumana.

Il mancato riconoscimento del valore del quadro ai tempi di Pellizza è un simbolo stesso della difficoltà nel fare accettare la rivendicazione dei più elementari diritti delle classi subalterne. Il suo percorso è stato infatti caratterizzato da una serie di alti e bassi in termini di riconoscimento e collocamento. Inizialmente, alla sua prima esposizione alla Quadriennale di Torino nel 1902, l’opera non ricevette alcun riconoscimento ufficiale né si ebbero proposte di acquisto da parte di musei o enti pubblici. Tuttavia, il suo successo emerse via via attraverso le riproduzioni diffuse dalla stampa socialista dell’epoca, come l’Avanti!, l’organo ufficiale del Partito Socialista Italiano.

La svolta avvenne nel 1921, quando l’opera fu finalmente acquistata dal Comune di Milano con una sottoscrizione pubblica ed entrò a far parte della collezione della Galleria d’Arte Moderna di Milano, trovando dimora nel Castello Sforzesco, nella Sala della Balla. Anche se questo fu un passo importante, il vero riconoscimento e apprezzamento dell’opera si sviluppò durante il periodo in cui fu esposta a Palazzo Marino dal 1943 al 1980. Qui, la reputazione del Quarto Stato migliorò notevolmente grazie all’attenzione dei critici che ne sottolinearono l’importanza come simbolo delle lotte per i diritti dei lavoratori. Successivamente, l’opera fu nuovamente trasferita nella Galleria d’Arte Moderna, questa volta in una sezione dedicata al divisionismo. Infine, nel 2010, trovò la sua collocazione nel Museo del Novecento. Dopo qualche anno, la tela è tornata presso la Galleria d’Arte Moderna (GAM).

Tomoko Nagao, Il Quarto Stato, 2015, serigrafia, cm 70×100.

Molte le rivisitazioni contemporanee. Tra le altre, segnaliamo Il Quarto Stato dell’artista giapponese Tomoko Nagao (Nagoya, 1976), che ha ricostruito, col suo classico stile tecno-pop con cui già in passato aveva rivisitato opere come l’Onda di Hokusai o la Venere del Botticelli, il dipinto di Pellizza riportandolo, in chiave ironica, al contemporaneo: sparita la classe operaia, oggi i rappresentanti del Quarto Stato vestono Armani, mangiano dolci e cibo confezionato, usano carte di credito Visa e bevono Spritz Campari. Addio lotta di classe, sembra dire Tomoko: nella nuova geografia sociale, tutto è omologato al livello di una piatta classe media universale, in cui tutti mangiano gli stessi prodotti, vestono le stesse marche e sono soggetti alle rigide leggi del credito e del mercato.

Millet, le spigolatrici dalla schiavitù alla pausa sigaretta

Jean-François Millet, Le spigolatrici, 1857, Musée d’Orsay, Parigi.

Sempre ottocenteschi sono molti quadri di pittori vicini al realismo sociale, come, in Francia, Gustave Courbet, da sempre impegnato a livello politico e sociale, in campo artistico e non solo (fu tra i protagonisti della Comune di Parigi nel 1870), con i suoi quadri carichi di riferimenti al lavoro e alle fatiche della vita dei lavoratori. O come Jean-François Millet, considerato, con Courbet, uno dei massimi esponenti del Realismo sociale. Le sue Spigolatrici sono l’esempio più famoso della sua celebrazione della dignità e della fatica del lavoro, in questo caso rappresentato da tre contadine, chine e con la schiena curva, colte nell’atto di raccogliere, con gesto autimatico e quasi meccanico, le spighe di grano disperse nei campi dopo la mietitura. Questa pratica era principalmente svolta da donne sole e povere, vedove, orfane o madri single, come si direbbe oggi. Il rituale della spigolatura si ripeteva anche dopo la vendemmia o la raccolta delle olive. In questo modo, le famiglie più povere riuscivano a procurarsi qualche sacco di farina, un po’ d’olio o qualche litro di vino.

Banksy, Agency Job, 2009, cm 152×165.

Anche su questo quadro si sono avute versioni contemporanee che ne hanno cambiato o addirittura ribaltato il significato. Sen’zaltro la più celebre, quella realizzata da Banksy nel 2009, realizzato ritagliando una delle tre contadine che lavoravano nei campi e posizionandola sulla cornice mentre fumava una sigaretta. Il quadro fa parte delle serie in cui l’artista parodiava quadri storici, come i Remixed Masterpieces, cicli di lavori ispirati a opere di artisti famosi, come Monet, Van Gogh e Warhol, o come i “Modified Oils”, che consistevano in riproduzioni di quadri provenienti dai mercatini delle pulci di Londra e alterati principalmente attraverso la sovraverniciatura, che Banksy appendeva, clandestinamente, all’interno dei musei più importanti del mondo. Il dipinto ha una ricca storia espositiva, poiché è stato incluso nella mostra del 2009 “Banksy versus Bristol Museum“, che ha attirato oltre 300.000 visitatori e rimane l’unica mostra museale autorizzata dall’artista. Nel 2017, è stato anche presentato in una retrospettiva del lavoro di Millet, allestita al Palais des Beaux-Arts di Lille, in Francia. Il titolo, “Agency Job”, allude alle problematiche della società a capitalismo avanzato, dove disoccupazione e lavoro precario sono tra i maggiori fattori di emarginazione e disagio sociale.

Manet, i nuovi precari delle città “da bere”

Édouard Manet, Il bar delle Folies-Bergère, 1881-82.

Il bar delle Folies-Bergère, dipinto da Édouard Manet tra il 1881 e il 1882, rappresenta uno degli ultimi lavori dell’artista. Realizzato in studio dopo un lungo processo preparatorio basato su bozzetti eseguiti all’interno del locale, l’opera fu completata dall’artista nonostante le sue gravi condizioni fisiche. Presentato al Salon del 1882, il dipinto ricevette un’accoglienza piuttosto tiepida, come spesso accadeva per le opere di Manet. Protagonista del dipinto, è la barista che sta dietro al bancone, vero soggetto del quadro con le sue bottiglie di liquori e di champagna, la sua terrina di mandarini, ma anche il senso di malincomia e di solitudine che trasmette, nonostante si trovi al centro di un locale elegante e affollato, popolato da clienti seduti ai tavolini e indaffarati nei loro svaghi e nelle loro conversazioni. Tra di loro, uomini eleganti vestiti con redingote e cilindri neri, in compagnia di donne, anch’esse eleganti e raffinate. In alto, a sinistra, si intravedono i piedi di una trapezista che si esibisce per il pubblico.

La barista, nota come Suzon, era una vera cameriera del Folies-Bergère, che accettò di posare per il pittore. Ritta in piedi dietro il bancone, si trova di fronte a un grande specchio che riflette il salone, illuminato dai grandi lampadari che la sovrastano. I suoi capelli biondi erano pettinati secondo la moda dell’epoca, con coda di cavallo e frangetta in fronte. Il suo abbigliamento è elegante: un vestito nero con un’ampia scollatura bordata di merletto, stretto in vita da una fila di bottoni. Alle orecchie porta due piccoli orecchini, al collo un collarino con nastro e cammeo, e all’avambraccio destro un braccialetto dorato. Un delizioso bouquet di fiori era appuntato sulla sua scollatura. Nonostante l’elegante mise, la ragazza ha uno sguardo distante e malinconico. La sua immagine diventerà virale, parte integrante del grande business del merchandising contemporaneo, tra riproduzioni, puzzle, magliette, poster, etc., anch’esso facente parte del nuovo ciclo della produzione del contemporaneo. Il suo volto alienato, privo di espressione, rimane però tutt’ora la rappresentazione, in grande anticipo sui tempi, delle future generazioni di ragazzi sfruttati, precari, sottopagati, lasciati ai margini della società dei diritti del lavoro stabile e garantito per tutti, di cui si popoleranno le città future. Intanto,

Yasumasa Morimura, Daughter of Art History, Theater B, 1989.

Nella rivisitazione contemporanea realizzata da Yasumasa Morimura, tra gli artisti che ha saputo meglio interpretare la necessità di trasgredire i tabù legati alle identità precostituite utilizzando il proprio corpo come luogo di sperimentazione per surfare tra generi, visioni e culture differenti, l’artista stesso assume i tratti della barista, disancorando due avambracci dalla rappresentazione e mettendoli, incongruamente, al centro della scena, sul bancone, come strane e inquietanti parodie meccaniche. I temi dell’alienazione, della meccanizzazione, dell’identità si rincorrono lungo la superficie dell’opera. La protagonista, la lavoratrice, lo sfruttato, il pubblico e l’artista sono messi tutti sullo stesso piano, mescolati in un caos incerto e confuso, impedendoci di avere una visione coerente d’insieme e una teoria sociale coerente e concludsiva nella società contemporanea.

Edward Hopper, la solitudine delle segretarie

Edward Hopper, Office at Night, 1940.

Il dipinto, realizzato da Edward Hopper nel 1940, raffigura la scena di un ufficio, in cui si staglia una giovane donna, ritratta in un abito blu a maniche corte, di fronte a un tipico mobile-archivio di pratiche per ufficio; di fianco a lei, un uomo, presumibilmente il suo capo, seduto a una scrivania, su cui si vedono i tipici accessori da ufficio, come un vecchio telefono nero, una lampada verde, dei fogli dattiloscritti. Sulla scrivania accanto, presumibilmente quella della sergretaria, campeggia una macchina da scrivere nera, sul modelleo delle vecchie Remington di una volta. La natura dell’ufficio non è chiara: potrebbe essere quello di un contabile, di un assicuratore, o l’uomo potrebbe invece essere un dirigente o il direttore di una piccola impresa. L’atmosfera buia, leggermente cupa, l’uso della luce rada e delle ombre taglienti e laterali, che conferisce un senso di drammaticità alla scena, così come il titolo (Ufficio di notte), fanno pensare, come spesso avviene nei dipinti di Hopper, a un senso di solitudine, di alinazione e di sottile malinconia. Tuttavia, una vaga ambiguità, fatta di sottintesi e di tensioni sessuali non espresse, carica il dipinto di elementi distgurbanti e non del tutto chiari. Sembra un’anticipazione di quello che piano piano diventerà il lavoro nelle società a capitalismo avanzato: l’alienazione non è più solo data dalla fatica e dalla ripetitività del lavoro, ma anche da un senso di straniamento, di non riconoscimento della propria identità e delle proprie capacità. La donna, poi, entra anch’essa nel mondo nel lavoro, ma ancora con un ruolo subalterno e spesso sottoposta a ricatti e tensioni di tipo sessuale.

Fortunato Depero, dalla bottega alla pubblicità

Il più geniale e innovativo degli artisti del cosiddetto “secondo Futurismo”, Fortunato Depero celebrò molto, e sotto i più diversi aspetti, il tema del lavoro nelle sue opere. Artista dotato di straordinaria inventiva ed energia, Depero fu un visionario dotato di un piglio imprenditoriale innato, un anticipatore di linguaggi e di mestieri: nella sua visione dell’arte infatti si mescolavano creatività e capacità di mescolare gli ambiti più diversi, un istinto comunicativo e una capacità di tradurre in marketing qualsiasi immagine. “Sono nato pittore nel senso più puro della parola, e in tutta la mia giovinezza, passata e presente, mi occupai sempre di pitture e di plastica e di altri problemi artistici di schietto lirismo”, scriverà l’artista. “Ho fatto e farò però ancora giocattoli, pannelli, marionette, costumi teatrali e scenografie e mi sono infinitamente divertito“. Depero infatti si può dire che fu tra gli inventori della moderna pubblicità: esemplare il suo rapporto con la ditta Campari. La sua “Casa del Mago“, come ribattezzerà il suo studio d’artista (e di pubblicitario) a Rovereto, è infatti non solo un tradizionale atelier d’artista, ma una vera e propria fucina di idee, di progetti, di collaborazioni con ditte e aziende, dove si mescolano intuizione artistica, sperimentazione e attento sguardo manageriale.

Fortunato Depero, La Casa del Mago, olio su tela, 1920.

Lo studio dell’artista si trasforma così in un grande laboratorio, dove nascono le opere, certamente, ma da dove l’arte esce dal ristretto mondo degli amatori e dei collezionisti, per entrare nelle case e nella quotidianità delle persone. Così, anche il lavoro piano piano si trasforma: non più solo organizzazione verticale tra padrone e manovalanza, ma comunità creative in movimento e talento applicato all’industria. Già s’intravede in controluce la moderna trasformazione del lavoro creativo in vera e propria industria creativa al servizio dell’impresa.

Fernand Léger, i costruttori di città verticali

Nel 1950, Fernand Léger realizza una serie di dipinti raffiguranti operai edili al lavoro sulle impalcature: è la serie dei “Costruttori“. La composizione è quadrata da travi erette all’infinito, che non convergono in nessun punto di fuga. Su queste travi, gli operai, come acrobati, sfidano le leggi dell’equilibrio e sembrano quasi fluttuare. La precarietà della loro posizione è accentuata dalle due corde che penzolano su entrambi i lati. La composizione è caratterizzata da una forte struttura geometrica e da una sensazione di movimento e energia, tipiche dello stile dell’artista. Da tempo interessato a rappresentare in chiave cubista la modernità, Léger fu particolarmente ispirato dal processo di ricostruzione postbellica in Francia. Vide un gruppo di elettricisti al lavoro sui piloni e fu colpito dal contrasto tra l’ambiente naturale e le travi metalliche. “Ho avuto l’idea viaggiando a Chevreuse per strada ogni sera”, raccontò in seguito. “C’era una fabbrica in costruzione. Vidi gli uomini oscillare in alto sulle travi di acciaio! Vidi l’uomo come una pulce; sembrava perso nelle invenzioni con il cielo sopra di lui. Volevo rendere tutto questo: il contrasto tra l’uomo e le sue invenzioni, tra l’operaio e tutta l’architettura metallica, quella durezza, quel ferro, quelle ferramenta, quei bulloni e rivetti. Anche le nuvole formano un contrasto con le travi”.

Dopo essersi unito al Partito Comunista Francese nel 1945, l’artista si concentrò sulla figura umana, e in particolare sul tema del lavoro e dei lavoratori. Desideroso che la sua arte fosse vista dagli operai ordinari, esibì infatti per un periodo la serie di dipinti dei ‘Costruttori’ nella mensa della fabbrica di automobili Renault a Parigi.

Sempre operai, sempre sospesi e quasi fluttuanti sulle impalcature, stagliati sul cielo, ma a New York invece che a Parigi, è una delle foto più celebri della storia della fotografia. “Lunch atop a Skyscraper” (Pranzo in cima al grattacielo), del 1932, mostra infatti undici operai seduti su una trave sospesa a 250 metri d’altezza, diventando un simbolo dell’epoca della Grande Depressione e della capacità di adattamento dell’uomo. La foto fu pubblicata sulle pagine del supplemento domenicale del New York Herald Tribune, e serviva a dare un senso di ottimismo nel futuro, attraverso il messaggio positivo di un paese che si stava rialzando. Tuttavia, ci sono alcuni dettagli interessanti da conoscere: l’autore della foto è rimasto sconosciuto: c’erano diversi fotografi presenti nel cantiere, ma non si è mai saputo chi l’avesse scattata. La foto, infatti, non è, come spesso si crede, stata scattata sull’Empire State Building, ma sulle impalcature del Rockefeller Center, e nonostante il contesto difficile della Grande Depressione, l’immagine trasmette un senso di ottimismo e speranza, mostrando appunto una New York in piena espansione e suggerendo che il Paese stesse ripartendo, nonostante le grandi difficoltà economiche di quegli anni.

Immagine che, nel tempo, diventerà iconica. Non è un caso che, proprio in occasione del Primo Maggio 2024, Tv Boy, tra i più noti urban artist italiani, abbia reso un omaggio ai lavoratori del Rockefeller Center e al loro Pranzo in cima al grattacielo, con un post sul suo profilo Instagram dalla forte carica ironica: anche loro, infatti, al posto della classica “schiscèta“, nel lavoro dell’artista si ritrovano ora in mano i sacchetti di Glovo e i bicchieri della Coca Cola. Potenza del marketing contemporaneo…

Diego Rivera e Ishida, il lavoro tra sforzo collettivo e alienazione

Diego Rivera, Detroit Industry Mural, South Wall.

I Detroit Industry Murals, dipinti da Diego Rivera tra il 1932 e il 1933, comprendono ventisette pannelli affrescati che ritraggono l’industria presso la Ford Motor Company a Detroit. Commissionati da Wilhelm Valentiner, direttore del Detroit Institute of Arts (DIA), Rivera completò i murales in otto mesi, con il sostegno finanziario di Edsel Ford. Rivera condusse una ricerca approfondita sul Ford River Rouge Complex e altre strutture industriali a Detroit prima di iniziare il progetto. I murales mettono in luce vari aspetti del paesaggio industriale di Detroit, tra cui la produzione automobilistica, i progressi scientifici e le relazioni lavorative. I due pannelli principali sulle pareti nord e sud raffigurano i lavoratori presso la Ford River Rouge Plant, mostrando il processo di produzione del motore V8 del 1932 e delle parti esterne dell’automobile. Rivera incorpora anche elementi della mitologia azteca, come la rappresentazione della dea azteca Coatlicue, per simboleggiare la tecnologia e il suo ruolo nello plasmare il futuro.

Diego Riveradetroit Industry, South Wall, Pharmaceutics, 1932-1933.

Rivera concepì i murales di Detroit Industry come un omaggio alla base manifatturiera e alla forza lavoro della città degli anni Trenta. Questi pannelli illustrano la natura duplice dell’umanità e della tecnologia, i loro aspetti costruttivi e distruttivi, dove le fabbriche sostengono e al contempo schiavizzano i lavoratori in un sistema implacabile e complesso, che inizia con le materie prime e termina con la produzione di un’auto. Non è un caso che gli affreschi siano stati effettuati proprio nella città “industriale” per eccellenza, proprio pochi anni dopo l’inziio della grande Depressione seguita alla crisi del ’29. Il lavoro diviene così insieme un oggetto anelato del desiderio per chi l’ha perso, e uno spaventoso meccanismo di sfruttamento e di alienazione psicologica e sociale.

Tetsuya Ishida, Standing By, 1999.

Tra i contemporanei, l’artista che più ha saputo riflettere il senso di profonda alienazione della crescente meccanizzazione della società, è stato senz’altro Tetsuya Ishida, artista giapponese morto suicida a soli 32 anni, nel 2005, divenuto nel tempo vero e proprio oggetto di culto e di venerazione nel sistema artistico mondiale. Nei suoi quadri, Ishida riflette il profondo senso di angoscia, di estrema solitudine, di paura che si è impadronito di intere generazioni di giapponesi, soprattutto giovani, persi in un mondo sempre più alienante, meccanizzato e ripetitivo, in cui non vedono prospettive di speranza nel futuro.

Tetsuya Ishida, Collection, 1998.

in questo contesto, il tema del lavoro, sempre più lasciato in mano alle macchine e a una dimensione spersonalizzata e ripetitiva, diviene una metafora della vita contemporanea, staccata dall’umanità e dalle sue “normali” dinamiche relazionali.

Nuovi e vecchi eroi del lavoro

Murale della Singapore Art Society in omaggio a medici e infermieri in prima linea nella lotta al Covid.

Tra alienazione e nuove forme di sfruttamento, però, con i “tempi nuovi”, disastri, malattie e violenza diffusa, la società dello spettacolo crea sempre nuovi modelli da indicare al pubblico. Sono quei lavoratori che si trovano a combattere in prima linea, vuoi contro le malattie come il Covid (medici e infermieri), vuoi in caso di attentati o catastrofi naturali (i pompieri), e poi maestri in prima linea nelle periferie e altri lavoratori “da battaglia”.

Smoe, Necesse, 2021.

Ecco allora, a Milano, in via Ludovico di Breme, l’immenso murale realizzato da Smoe nel 2021, intitolato Necesse, e dedicato proprio a quei lavoratori che si sono battuti e hanno manetnuto la società attiva durante l’emergenza sanitaria: medici e infermieri, ma anche volontari, medici, spazzini, riders.

Non poteva che venire da New York, invece, l’immenso omaggio ai pompieri dell’11 settembre: realizzato nel 2018 dall’artista brasiliano Eduardo Kobra e basato su una foto scattata dal pluripremiato fotografo freelance Matthew McDermott, il grande murale, che campeggia sulla East 49th Street vicino alla Terza Avenue, rappresenta il vigile del fuoco Mike Bellantoni, sopraffatto dall’esaurimento e dalla disperazione dagli orrori dell’attacco delle Torri Gemelle dell’11 settembre. Un’immagine impressionante, anche per le dimensioni della figura, che compare appoggiato a un ginocchio, con la testa chinata, mentre si appoggia sulla sua ascia.

Salgado, l’inferno del lavoro

Sebastião Salgado, Serra Pelada, serie Gold.

In principio era Salgado. Sebastião Salgado, nato in Brasile nel 1944, è stato sempre guidato da una profonda sensibilità che lo ha spinto a documentare la condizione umana in ogni parte del mondo. Le sue sono testiminianze terribili delle condizioni di vita di milioni di persone in tutto il mondo. Le sue serie fotografiche “Gold” (1986) e “Workers” (1993) sono due esempi che testimoniano la durezza del lavoro umano e le condizioni estreme in cui gli individui sono spesso costretti a operare. In “Gold“, Salgado ci trasporta a Serra Pelada, una delle più grandi miniere d’oro a cielo aperto del mondo, situata in Brasile. Le immagini catturate dal fotografo mostrano migliaia di uomini, seminudi e ricoperti di polvere d’oro, impegnati in un lavoro durissimo e sfiancante. I volti e i corpi di questi lavoratori sono macchiati dall’ocra, un minerale ferroso presente nella terra scavata. Salgado, con il suo sguardo penetrante, cattura la brutalità e la fatica di questa attività mineraria, offrendo uno sguardo crudo sulla realtà di coloro che cercano disperatamente di trarre profitto dalla terra.

Sebastião Salgado, Serra Pelada, serie Workers.

La serie “Workers“, invece, ci porta in giro per il mondo, dalle miniere di zolfo in Indonesia al lavoro nelle piantagioni di caffè in Brasile, dalla pesca del tonno in Sicilia alla lavorazione del carbone in India. Attraverso questi scatti, Salgado mette in luce la dignità e la forza degli individui che lavorano duramente per sostenere se stessi e le loro famiglie. Ogni immagine racconta una storia di sacrificio, resilienza e speranza, mostrando il lato umano dietro le attività lavorative spesso ignorate o dimenticate.

Sebastião Salgado, Serra Pelada, serie Gold.

In entrambe le serie, Salgado utilizza la sua maestria tecnica e il suo occhio sensibile per catturare momenti di vita quotidiana e di lavoro, trasmettendo un profondo senso di empatia e compassione per coloro che lottano nelle condizioni più difficili. Le sue fotografie sono un richiamo alla consapevolezza sociale e un tributo alla forza e alla dignità dell’uomo nel contesto delle sfide del lavoro e della sopravvivenza.

Jean David Nkot, la schiavitù del lavoro oltre l’Europa

Jean David Nkot, /@tiredbody##, cm 200×300, 2021.

Tra i pittori contemporanei, invece, Jean David Nkot, camerunense, classe 1989, dal 2020 affronta il tema dello sfruttamento delle materie prime in Africa e delle drammatiche condizioni dei lavoratori africani sfruttati. Attraverso il suo lavoro, Nkot sembra voler porre un rimedio simbolico all’invisibilità dei lavoratori: dando loro lo status di icone contemporanee, ci invita a ripensare al nostro modello economico per proteggere l’uomo e il pianeta.

Jean David Nkot, www/boozalleur des lieux.cm.org, 2021.

Dando un volto a tutti questi lavoratori anonimi e sfruttati, Nkot restituisce loro dignità e ricorda che la storia del mondo è fatta di esuli, di migrazioni, di tragedie, di sofferenze ma anche di speranza. Così facendo la sua pittura porta con sé molti interrogativi sulla nostra società, sulla sua capacità di risolvere i conflitti e di affrontare le sfide ambientali ed economiche.

Jean David Nkot, #life in your hands#, 2019.

Nkot concentra l’attenzione del suo lavoro sui volti e sui corpi di lavoratori, quasi sempre irregolari e migranti, mnentre come fondo utilizza spesso le mappe con i nomi dei singoli paesi, i relativi confini, nonché i nomi dei minerali presenti sui territori in cui i lavoratori sono costretti a spaccarsi la schiena: una poitenziale ricchezza, di cui però quasi mai le popolazioni locali possono usufruire, perché in mano a governanti corrotti, a multinazionali e imprenditori senza scrupoli.

Banksy, Blu, Biancoshock in difesa dei nuovi schiavi del capitalismo

Banksy, Slave Labour, 2013.

È probabilmente Banksy a detenere la palma dell’artista che meglio si è espresso sui temi dello schiavismo contemporaneo, del lavoro precario e dello sfruttamento minorile. Si intitola in maniera molto esplicita il murale comparso su un muro della periferia di Londra nel 2012 e subito attribuito a Banksy: Slave Labour. Il murale, collocato sul lato di un negozio Poundland a Wood Green nel maggio del 2012, è stato interpretato come una protesta contro lo sfruttamento minorile diffuso ovunque in tutto il mondo, grazie alle pratica di “delocalizzare” il lavoro là dove non ci sono ferre regole che disciplinino l’uso della manodopera. Ecco allora che, è l’accusa dello street artist, persino le fabbriche che hanno realizzato i cimeli per il Giubileo di Diamante e le Olimpiadi di Londra del 2012 non sfuggono a questa regola. Sebbene il murale sia stato rimosso dal muro in cui era stato dipinto nel febbraio 2013 e messo all’asta a Miami, gli appelli dei residenti di Wood Green hanno portato alla sua restituzione nel Regno Unito. Successivamente è stato venduto all’asta a Covent Garden, Londra, per 1,2 milioni di dollari.

Banksy, Workers of The World Unite, 2009.

Più leggero e ironico, il tema di un altro murale di Banksy, “Workers of the World Unite!” (Lavoratori di tuto il mondo unitevi!ì): parafrasando il celebre motto marxiano che dette il via alle lotte operaie in tutto il mondo, l’artista sembra mettere in guardia da un “comunismo da salotto”, dove gli slogan sono un semplice modo per mettersi in mostra. Poi, a pulire i muri ci deve pensare qualcun altro, magari proprio quei lavoratori sfruttati di cui ci si erge protettori…

Blu, Handcuffs, Berlino.

Anche Blu, uno degli urban artist più radicali del panorama mondiale, autore di murales dsal taglio politico e sociale di grande potenza scenica e formale, ha spesso ritratto il tema dell’alienazione delle masse, anche attraverso il lavoro. Esemplare il murale che l’artista ha realizzato a Berlino, dove un uomo in giacca e cravatta ha le mani legate da un bel paio di manette. Come ad avvertire: anche voi, cari lavoratori moderni, ben pagati e benpensanti, siete solo schiavi del Capitale.

Anche un altro urban artist italiano, Francesco Biancospavento in arte Biancoshock, ha lavorato in questi anni sul tema della schiavitù dei “nuovi lavori” non garantiti, sottopagati e spesso usuranti e a rischio. Nel marzo del 2021, l’artista ha trasformato un vecchio cubo di cemento abbandonato sul ciglio di una strada a Milano in una rappresentazione metaforica dello zaino termico di un rider. Utilizzando il nome di una nota azienda di food delivery, Deliveroo, ha creato il termine “Slaveroo” per denunciare le condizioni lavorative precarie dei fattorini che consegnano cibo a domicilio. Attraverso questa installazione artistica, intitolata “Vecchia pietra, nuova schiavitù“, Biancoshock evidenzia la mancanza di retribuzioni adeguate e di tutela contrattuale per questi lavoratori, evidenziando una problematica sociale molto diffusa nelle città italiane. Come dire: il lavoro cambia, lo sfruttamento rimane…

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