Dadamaino e l’architettura dello sguardo

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Il MA*GA di Gallarate celebra, a vent’anni dalla sua scomparsa, una delle più importanti figure dell’avanguardia artistica della seconda metà del Novecento: Dadamaino (Edoarda Emilia Maino). La retrospettiva, curata da Flaminio Gualdoni e visitabile fino al 7 aprile 2024, rievoca la riflessione artistica e filosofica di questa artista di grande spessore e movimento creativo.

Dadamaino con Luciano Fabro, Basel 1994, ph Gerni

Nata a Milano nel 1930, Dadamaino si inserisce a pieno titolo nel clima di sperimentazione che permea il dopoguerra italiano. Lucio Fontana, con i suoi concetti spaziali, mette in evidenza per primo il carattere finzionale del quadro, indaga la processualità dell’opera, l’impatto visivo-sensoriale, la co-costruzione nello sguardo di fruizione. Contempla una nuova idea di spazio che porterà all’ibridazione dei materiali e all’appropriazione spaziale-temporale di rottura rispetto all’impianto tradizionale e alla “dittatura del figurativo”. La prima serie artistica di Dadamaino, definita Volumi (1958-1960), è figlia dello spazialismo di Fontana. Le tele monocrome perforate si distaccano dall’informale propriamente detto e si strutturano come profonda riflessione astratta sullo spazio, come architettura nascente, instaurando un dialogo bilaterale tra il vuoto e il pieno, tra la “figura” che appare, a partire da un processo di riduzione materica, di taglio, di segno inciso nel suo essere “sottratto”.

Dadamaino, “Volume”, 1960, idropittura su tela, 124×96 cm, Collezione Privata

La forma riprodotta nei Volumi richiede una iterazione cosicché il concettuale insito trovi lo spazio di sedimentazione necessario. Ecco che l’opera evolve e nei primi anni Sessanta l’artista crea i Volumi a moduli sfasati, in cui l’impossibilità di una definizione unica dell’essenza stessa dell’arte e dell’uomo, porta alla strutturazione di una costante tra forma e contenuto, tra spazio di appropriazione visiva e ciò che sfugge al già detto della “narrazione”. Milano respira un’aria di rigenerazione artistica dopo la soppressione e censura: le opere degli artisti che affollano Brera si impongono di disarticolare il linguaggio figurativo in direzione di un’analisi concettuale che rifletta sulla tecnica, sul processo creativo e sul linguaggio come forma e veicolo di idee.

DADAMAINO 1930-2004, © Stefano Anzini

La mostra segue un percorso cronologico e accompagna lo spettatore nella scoperta, passo dopo passo, dell’estrema cultura che permea l’opera di Dadamaino. La collettività della sperimentazione, condivisa negli ambienti di contatto milanese, come la galleria Azimut fondata da Piero Manzoni ed Enrico Castellani (dove Dadamaino espone), è ampiamente descritto. La mostra espone le opere dei compagni di cammino della Dadamaino, ove emerge la comune esigenza profonda di trovare un proprio linguaggio. L’influenza di Piero Manzoni è fondamentale. Gli Achrome, contemporanei alla serie dei Volumi, sono il tentativo riuscito, mediante l’informale e l’acromia, di un necessario “grado zero” della pittura, affinché da questo sia possibile costruire e creare un’arte che possa parlare del presente al presente.

Tra il 1963 e il 1965 l’opera di Dadamaino assume un ulteriore veste: la serie degli oggetti e dei disegni ottico cinetici sono il frutto degli incontri con gli artisti del GRAV (Groupe de Recherche d’Art Visuel). Emerge il grande interesse che l’artista rivolge alla sensorialità: tutta la sua opera, più che concettuale in senso stretto, si struttura quale metafora della visione: il tema dello sguardo, come conduttore-catalizzatore attivo e passivo, definisce la radicale novità del ribaltamento prospettico nella fruizione dell’opera. Il colore che emerge ad esempio in Componibile (1965) si struttura proprio in questi termini: costruzione materica che conduce alla riflessione ottica sul proprio sé quale forma variabile, quale essere muto-completo, ma frammentato. Dadamaino riflette, costantemente, sul carattere del segno tracciato. La produzione successiva, a partire dagli anni Settanta in poi, conserva la novità delle differenti tecniche (in questo caso l’utilizzo della carta) e concettuale, abbandonando, ma ciò è evidente sin dagli esordi, la fissità formale in direzione di un abbraccio della dinamicità del processo creativo. Importante, per comprendere la poetica di Dadamaino, è la circolarità sottesa alla sua produzione.

Dadamaino, “Movimento delle cose”, 164×116 cm, Collezione Privata

L’opera Il movimento delle cose (1995) ingloba al proprio interno tutti i caratteri e lo spirito critico dell’artista, presentandosi quale testamento fisico e morale: la processualità, il cambiamento cangiante della forma a seconda dello sguardo che si pone sulle “cose”, l’oggetto quale segno tracciato, manifesto e latente, “l’inconscio razionale” che solo l’arte è in grado di far emergere e coincidere, il radicamento e posizionamento del nostro essere soggetto. 

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