Happy Gas: Sarah Lucas, sberleffi sexy alla Tate Britain

Getting your Trinity Audio player ready...

E chi se lo dimentica il Padiglione della Gran Bretagna alla 56° Biennale di Venezia, nel 2015, con quelle donne di gesso tagliate a metà (ovviamente restava quella inferiore) tutte, immancabilmente, con una sigaretta che spuntava tra le natiche o dal sesso? E l’installazione dell’anno dopo, a Milano, all’Albergo Diurno Venezia? Una visione gotica. Con i muri scrostati e le piastrelline scure a fare da scenario a lavandini che traboccavano di seni rigonfi, dalla vaga suggestione animale, o alla sedia da barbiere su cui una delle sue Bunnies dalle gambe spalancate sfoggiava un gigantesco pene eretto.

Sarah Lucas bisogna prenderla così, e anche guardarla molto bene, perché dietro la provocazione, lo sfottò e quell’aria sprezzante c’è un racconto sottile di femminilità e sentimento, emozioni e relazioni, corpi amati e corpi abusati. Oggi la Tate Britain la celebra con una personale (Happy gas, fino al 14 gennaio) in cui quarant’anni di carriera sono ripercorsi con un allestimento intelligente, dove la cronologia salta in aria in favore di un intrigante rimescolamento di carte che fa capire ancora meglio i percorsi mentali dell’artista. Alle pareti, gigantografie della Sarah di un tempo, che mangia una banana o guarda corrucciata lo spettatore, e così – niente trucco, jeans sformati, anfibi, T-shirt bianca senza pretese e capelli tagliati alla bell’e meglio – ci ricorda come fosse oggi quella compagna di liceo che non faceva niente per sembrare più carina e che però i ragazzi seguivano come un Lagotto seguirebbe un tartufo.

C’è un tale mix di grazia e cattiveria, di consapevolezza e sprezzatura, nel suo lavoro, da lasciare senza fiato. Del resto Sarah è una che non le ha mai mandate a dire, come quando raccontava la coppia mostrandoci uno spoglio materasso su cui aveva posato una zucchina e due arance a rappresentare il sesso maschile e dall’altra parte, per raccontare la donna, due pompelmi e, più in basso, un secchio rovesciato. Pensiamo alle sue Bunnies, le Conigliette – che detto così sembra un articolo per guardoni maturi – costruite imbottendo collant, vestendoli di autoreggenti nere e riuscendo, nonostante la connotazione sessuale, a far fare un doppio carpiato al feticismo, che finisce colpito e affondato dallo schiaffo dell’ironia. Forse è proprio questo che rende unica la ruvida Sarah: la capacità di disegnare il corpo femminile utilizzando lo sguardo oggettivante del maschio, ma senza mai farlo sentire oggetto. Sedute sulle sedie, o diventate esse stesse pezzi metamorfici di quelle sedie, arrese, con le gambe spalancate, offerte – le cuciture del tessuto a creare l’illusione delle pieghe segrete della carne – e tutto il resto del corpo reso solo da quelle protuberanze lunghe e molli che potrebbero essere braccia, ma anche le orecchie di un animale – da qui il titolo – le Bunnies ci interrogano sull’essere donna e sull’essere corpo. Sulla percezione dell’altro e sul nostro percepirci. Sono donne spezzate, residuali rispetto a un tutto iniziale di cui possiamo solo intuire la forma, eppure risultano completamente diverse dagli ibridi crudeli che un artista come Hans Bellmer costruiva nelle sue bambole (piegando anche con la compagna Unica Zürn a farsi legare come un insaccato per somigliare alle sue fantasie). Anche lì erano solo gambe, a volte, e poi sessi e seni, pupazzi grotteschi dalle giunture a sfera, ma con una connotazione di mutilazione e di morte che nella Lucas non si avverte mai. Non sono vittime, quelle dell’artista britannica, ma incarnazioni ironiche di una femminilità oggettivata che non ha più intenzione di restare tale e allora diventa soggetto. E si accende, sprezzante, una sigaretta.

In mostra alla Tate ci sono anche loro, naturalmente, le Bunnies, con quella matericità tattile che rende difficile non avvicinarsi a toccarle, accanto alle loro discendenti, illuminate da un guizzo pop che prima non c’era: issate magari su sneakers con incongrui tacchi a spillo o su calzature iperfemminili sollevate su grandi zeppe da ballerina di lap dance. Le calze qualche volta sono diventate arancioni, stivaletti di vernice rosa shocking si allacciano stretti catturando la caviglia, un’areola bruna rende più realistico il capezzolo. Ma sono loro e non ci si può sbagliare. Alcune, come la Fat Doris, mostrano forme più morbide. Lei, per esempio, non rinuncia alle autoreggenti, ma sfoggia con orgoglio una pila di rotoli di grasso sul ventre e, appoggiati sopra, seni oblunghi a guardare l’ombelico; come a dire che il tempo passa per tutti, ma alla fine, anche in questo caso, chi se ne frega.

Accanto ai corpi, ai grappoli di seni turgidi come infiorescenze, ai collage fatti con ritagli di giornali (dove, ancora, il corpo è protagonista) il percorso si snoda tra sculture in bronzo, resina, gesso, cemento: settantacinque opere – sedici delle quali mai esposte prima – a raccontare una carriera che ha portato la Young British Artist (non più tanto young, oramai, visto che è del 1962, ma capace di tenere testa a personaggi come il collega Damien Hirst) a diventare uno dei nomi più hot del panorama internazionale.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Artuu consiglia

Iscriviti alla Artuu Newsletter

Il Meglio di Artuu

Ti potrebbero interessare

Seguici su Instagram ogni giorno