Cataldo Dino Meo, poeta e performer della scena urbana

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Cataldo Dino Meo ha cavalcato le trasformazioni degli anni Sessanta è stato a capo di una banda di giovani poeti situazionisti. Con il suo giubbotto di pelle nera è stato in prima linea nelle lotte contro la società tanto da finire anche in galera. Sopravvissuto grazie alla sua passione per la poesia e la musica rock.

Tra i più potenti poeti/performer della scena underground milanese, Cataldo Dino Meo, in arte CDM, scrive da anni poesia colta e intransigente, a volte di contenuto sociale, a volte introspettiva, spesso abbinata a creazioni video, curate dal fratello Antonio, realizzate in un linguaggio incisivo. Così per Dino la poesia diventa arte concettuale, performance, le immagini video, la musica e la parola la fanno vivere e vibrare.  Il poeta ci mette la faccia, declama i suoi versi come nell’antica Grecia facevano gli aedi.

È una penna cinica e sferzante, quella di Cataldo Dino Meo, tocca temi quali la relazione fra l’umanità e il mondo che la circonda di cui ha una visione il più negativa possibile, come nella poesia Sposto il limite, che dà il titolo al suo ultimo libro.

“Ho un solo modo per scongiurare imbarazzanti

complicità, vivere da disadattato…”.

Toccanti anche i versi dedicati a Caravaggio:

” Voglio uccidere! Uccidere!

Per sapere se esisto realmente.

Lo abbiamo incontrato in occasione della sua performance a Milano alla Casa degli Artisti, dove all’interno di Public Program della residenza “Visibile – Invisibile. Tecniche delle meraviglie”, a cura di Francesca Alfano Miglietti in are FAM (saggista e critica d’arte, autrice del recente Contaminazioni tra corpi e macchine, carne e tecnologia nelle arti contemporanee, Shake edizioni, ndr), Marco Philopat e Christian Gangitano, ha presentato il suo ultimo libro.

La parola può tutto? Per il filosofo Gorgia essa è in grado di «Spegnere la paura, eliminare la sofferenza, alimentare la gioia, accrescere la compassione», lo chiediamo a Cataldo Dino Meo.

“Non c’è dubbio, la parola può risultare compassionevole, sostenere le durezze materiali e psicologiche dell’esistere, ma anche tradire, fraintendere, incitare all’odio. Quindi, la parola non ha poteri taumaturgici
in sé, anzi, il più delle volte, manifesta tutta la sua disarmante insufficienza, spesso risultando ambigua, pericolosa, parola che ci separa dal nostro stesso pensiero, dalle nostre stesse intenzioni.  La parola è troppo spesso una laida fogna in cui si esercitano aspettative quasi sempre deluse. Io credo che la parola, il più delle volte, divide, accende conflitti, scatena fanatismi, semina rivalità. Può essere parola d’amore o dichiarazione di guerra, ma resta sempre un tragico inganno. Quando con la parola superiamo il confine della comunicazione spicciola, ordinaria, entriamo nel vortice del non detto, del non compreso, del sempre inespresso. Il mio libro Sposto il limite ha come sottotitolo: “le parole che non uccidono lavorano per il nemico”. Mi riferisco alla marea delle composizioni poetiche in circolazione, ridotte a rituali piagnucolanti, a sordide confessioni dei propri sfaceli emotivi descritti come nenie funeste. Alla parola
di una poesia imbrigliata nell’astruso concettualismo. Per me la parola che uccide è la parola fiammeggiante che sfugge a tutti i canoni di una cultura vigliaccamente prudente”.

Nei tuoi libri la cosa che più colpisce è questo modo dissacratorio di trattare gli argomenti “tabù”. Come nasce in te la voglia di affrontarli e di scriverne? Quali sono i tuoi obiettivi? 

“Se vuoi sfuggire all’asfissiata del conformismo, devi osare, spostare il limite, scavalcare l’inviolabile. La vita non dà scampo, con lei non puoi bleffare: fare della propria esistenza una leggenda oppure marcire nella splendida insignificanza. Cos’è una vita leggendaria? Distogliersi dai percorsi obbligati, creare situazioni ad alto voltaggio vitale, divenire creatura multiformi, acquisire un’identità cangiante, prismatica. Al pari di Proteo si deve cambiare aspetto ogni giorno, e, come Tifone, avere cento teste con cui esprimere pensieri tra di loro diversi, contradditori, differenti. Noi siamo i soli invitati al banchetto dei dinosauri volanti. Occorre che il piacere diventi il fine primario dell’esistere, acquisire un’etica del vivere pragmatico, privo del tribalismo ideologico, divenire romantici predatori che affermano sensismo assoluto, autosufficienza. Ragionare non è indispensabile, godere invece è obbligatorio”.

La poesia che serve scava le coscienze. Ma può bastare?

“La coscienza è una lurida sgualdrina. Tutti la prendono a proprio piacimento, la imbellettano come meglio credono, ne fanno oggetto delle loro turpi perversioni. Dentro una coscienza si annida il malaffare degli spiegatori, che ti spiegano ciò che è corretto o sbagliato, ciò che è giusto essere, ti spiegano cos’è bene, cos’è male, chi sei davvero, come cazzo ti chiami veramente. Gli spiegatori educano le coscienze, indirizzano, selezionano. Eserciti di filosofi, psicologi, critici d’ogni latitudine dello scibile putrefatto, accademici incartapecoriti nella confortevole lobotomia della loro scienza cadaverica, occupano abusivamente le nostre menti, molestandoci continuamente con la medesima superbia degli squadristi di dio.”

Le tue poesie sono sempre state molto controverse, taglienti, ironiche. Lo sono anche quelle contenute in quest’ultimo libro?

“Precedentemente ho pubblicato solo libri autoprodotti. Sposto Il Limite per AgenziaX Edizioni Milano è la mia antologia poetica sviluppata in oltre trent’anni. Contiene ampie note biografiche scritte da me, e soprattutto presenta al suo interno una novità assoluta: la Sezione Video, videoclip direttamente collegati ai testi, ideata da mio fratello Antonio Meo che non ha precedenti nel mondo. Tutti i miei video si possono vedere su YouTube. Il volume è diviso in tre sezioni: Eretica – Amorosa – Epica. Posso assicurati che l’intera raccolta è tagliente, scellerata, visionaria, ironica, psichedelica. La poesia come non l’avete mai vista, come non l’avete mai ascoltata. Poesia impetuosa, folgorante, non più salario svenevole dei docili”.

La poesia è una sorta di Cenerentola della cultura italiana? Cosa la può salvare?

“La poesia è la forma di comunicazione più diffusa, essa si manifesta principalmente nelle canzoni.
La poesia scritta invece è a un bivio: o si evolve nel senso di comprendere che deve approfittare delle forme di linguaggio interdisciplinari come il video, la musica, le esibizioni live, per uscire dal ghetto della propria noia, oppure affogherà nelle sabbie mobili dell’inadeguatezza, se non saprà rinnovare il suo linguaggio si seppellirà nel cimitero della compiacenza asfittica. Anche gli editori, tutti gli editori, dovranno divenire botteghe multimediali, concepire il libro come un inizio creativo che si svilupperà successivamente in video, film, opera teatrale, concerto dal vivo, performance, occasione di feste continue. Tutto ciò può bastare per salvare la poesia dai poeti? Non lo so. Credo comunque che occorra sottrarre la poesia all’insufficienza della parola stampata”.

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