Tina la rivoluzionaria in mostra a Rovigo

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Non è da tutte passare dalle lusinghe di Hollywood alla ruvida Città del Messico senza fare una piega. Un giorno guardi in macchina sbattendo gli occhioni bistrati e atteggiando la bocca a cuore e il giorno dopo ti asciughi il sudore con la manica della camicia mentre fermi l’immagine indimenticabile di una donna che regge l’asta di una bandiera molto più grande di lei. 

Se pensiamo che in mezzo ci sono stati gli scatti di Edward Weston (lei nuda, stupenda, scorciata dall’alto o presa in primi piani ravvicinatissimi, dove la curva delle natiche creava paesaggi surreali e dove il triangolo del pube si inventava giochi di geometrie) ci rendiamo conto che Tina Modotti si è dimostrata donna capace di superare qualsiasi stereotipo, di travolgere ogni previsione, trasformandosi nella figura unica che oggi Palazzo Roverella, a Rovigo, celebra fino al 28 gennaio con una personale gigantesca.

Non era mai stata raccontata così, Tina Modotti: trecento pezzi in mostra dei quali duecento sono fotografie. Il suo mondo che è ancora, comunque, solo un pezzo della sua vita. Si dedica alla fotografia solo dal 1923 al 1930, infatti, per poi concentrarsi sul giornalismo e sulla politica.

Tina Modotti, Donne di Juchitán con jìcara, Messico, 1929 ca.

Non è mai stata una mammoletta, Assunta Adelaide Modotti. E ha dovuto crescere in fretta: a diciassette anni sale da sola sul piroscafo che dalla natia Udine la porta a raggiungere la famiglia negli Stati Uniti. Non viaggia in prima classe e quando arriva la aspetta un lavoro in filanda. Lei si adatta e intanto non smette di sognare la fotografia, la professione dello zio. E per alimentare questa fantasia creativa gira musei e teatri, quando qualcuno le regala un biglietto. 

È molto bella, Tina, e questo non guasta. Ovale perfetto, pelle olivastra, grandi occhi scuri e una massa di capelli castani che fanno di lei la bellezza esotica per eccellenza. E visti i suoi sogni artistici, non può che innamorarsi di un poeta: Roubaix de l’Abrie Richey. È lui il principe che sul suo cavallo bianco la porta a Los Angeles e le apre le porte del cinema.

Corteggiata dai produttori e dai registi, perfetta nel ruolo della fanciulla che si strugge d’amore e che si asciuga le lacrime con la punta del fazzolettino, cosa ne sarebbe stato di lei se non fossa stata Tina Modotti? Ma la ragazza è troppo intelligente per non rendersi conto che quelle in cui lavora sono pellicole di serie B e soprattutto fa in fretta ad annoiarsi. E poi, lo abbiamo detto, il suo sogno è un altro.

Così, quando incontra Edward Weston, qualcosa dentro di lei fa click. Weston è un fotografo geniale, un fuoriclasse. No, lui non è il principe azzurro: lui è quello che conosce tutti i segreti del mondo che lei ama di più. E poi è anche altro. Qualcosa che la accende dentro. Guardandosi attraverso i suoi occhi, attraverso il suo obiettivo, improvvisamente Tina scopre che quel corpo di cui la natura l’ha dotata non è solo un piacevole accessorio: è qualcosa di potente. 

Eppure, ancora una volta, diventare un’icona di bellezza non le basta. Weston è per lei soprattutto il mentore, il maestro. E lui deve insistere per farla spogliare e mettere in posa perché Tina non si stancherebbe mai di armeggiare con la macchina e la camera oscura.

Diventano amanti e colleghi, sodali e simbiotici. E lei impara tutto e anche di più.

Tina Modotti, Concha Michel e i suoi assistenti all’inaugurazione della Escuela Libre de Agricultura No. 2 “Emiliano Zapata” a Ocopulco , Messico 1928

Ma è il Messico a cambiarla. Vi arriva per caso, perché è lì che muore il marito. E quella natura la travolge: la luce, il cielo, la vegetazione e soprattutto la gente. Ne parla a Weston, ci tornano insieme. Lì lei comincia a fotografare. E a rinascere, per l’ennesima volta. Qui si risveglia la sua coscienza politica, la sua voglia di fare qualcosa per gli altri. Quella che immaginava come una passione – e, nei sogni più ottimisti, come una professione – diventa per Tina un mezzo per dare voce agli ultimi: le donne di Tehuantepec con in testa i contenitori ricavati da grosse zucche dipinte; i bambini con gli occhi sbarrati verso l’obiettivo, prototipo di quelle che sarebbero state alcune delle fotografie di reportage più suggestive degli anni a venire; le mani nodose e consumate dei contadini. In un bianco e nero pulito, reso vibrante da una lievissima sfocatura che diventa la sua firma, Tina Modotti inventa un alfabeto personalissimo fatto anche di oggetti da lei resi iconici, come la falce e il martello appoggiati sul sombrero. O come le calle, figlie dell’amore di Weston per il dettaglio e per la texture delle superfici, splendidamente sensuali, forse ancora più di quelle che Robert Mapplethorpe ci avrebbe regalato oltre mezzo secolo più tardi.

Nei ritratti di lei, in mostra a Rovigo, emerge il volto semplice, senza trucco, quasi castigato dalla pettinatura raccolta con la scriminatura centrale e le due bande scure a coprirle le orecchie; il viso di una donna che sa di non aver bisogno di orpelli e che soprattutto ha troppe battaglie davanti a sé per trovare il tempo di essere frivola. La politica, prima di tutto. In Messico conosce Diego Rivera e David Alfaro Siqueiros, che non solo sono i muralisti più importanti del Paese ma anche i fondatori della rivista di sinistra El Machete, per la quale Tina comincia a scrivere, denunciando gli orrori del fascismo in Italia. 

Tina Modotti, Donna di Tehuantepec, Messico, 1929 ca

Nel 1924 espone con Weston al Palacio de Mineria (di cinque anni più tardi sarà la sua unica personale, a Città del Messico: sessanta scatti di cui quaranta recuperati per la mostra di Palazzo Roverella), ma la loro relazione si è già intiepidita. Non cerca l’amore, ora. La sua vita è già abbastanza piena. Ma quando nel giugno del 1928 il collega giornalista Roendo Gomez Lorenzo le presenta il cubano Julio Antonio Mella, qualcosa le si scioglie dentro. Non tanto perché il ragazzo – ha venticinque anni: sei meno di lei – ha la bellezza selvaggia di un guerriero esotico, ma per la sua storia: tra i fondatori del Partito Comunista Cubano, si trova in fuga, perseguitato dal dittatore Machado. Divampa una passione in cui si intrecciano sentimento, ideali e fede politica. Vanno subito a vivere insieme, ma la felicità dura poco. La mattina del 10 gennaio 1929, poco dopo averlo salutato, Tina sente due colpi di pistola. Prima ancora di voltarsi sa già che cosa è successo: Mella giace morto sul marciapiede.

Subito dopo questo omicidio, anche lei comincia a essere perseguitata. Espulsa dal Messico con la falsa accusa di aver partecipato a un attentato contro il nuovo capo dello stato messicano, il generale Pascual Ortiz Rubio, andrà in Spagna a curare i feriti della Guerra Civile. Rientrerà grazie all’annullamento del decreto di espulsione voluto dal nuovo presidente, Lázaro Cárdenas. Però in Messico morirà, in circostanze ancora mai chiarite, su un taxi che la riporta a casa dopo una cena il 5 gennaio del 1942.

Forse la foto più bella in mostra a Palazzo Roverella è il ritratto di quell’amore mai dimenticato, quello scattato il 10 gennaio del 1929, china sul marciapiede, trattenendo le lacrime. Julio Antonio con gli occhi chiusi, i lineamenti distesi e l’ombra di un sorriso che gli increspa le labbra, sembra un ragazzo addormentato perso in un sogno.  

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