“Ecce Homo, Ecce Caravaggio”. Sgarbi racconta come si riconosce un capolavoro

Nella prima parte di questo testo, che abbiamo pubblicato qua (Sgarbi: “Vi svelo i segreti dell’Ecce Homo di Caravaggio in mostra a Madrid”), Vittorio Sgarbi ha raccontato ai nostri lettori dettagli meno conosciuti, probabile origine, storia e datazione dell’Ecce Homo di Caravaggio scoperto a Madrid, oggi in mostra (dal 28 maggio fino alla fine di ottobre) al Museo del Prado. In questa parte del testo, invece, il critico racconta ai lettori di Artuu le ore decisive della scoperta, spiegando come si riconosce un capolavoro: tra analisi dell’opera, confronti con gli altri quadri già conosciuti del maestro, ma soprattutto conoscenza, velocità e intuito.

Il volto, i gesti, la composizione

Michelangelo Merisi da Caravaggio, Ecce Homo.

Guardiamo l’opera. Come una fotografia di Weegee o di Cartier Bresson, ha un impatto immediato e travolgente. Come non è nel composto dipinto del Cigoli o nel presunto Caravaggio genovese, teatrale e atteggiato, l’Ecce Homo che abbiamo di fronte è in presa diretta. Brutale e terribile è il personaggio in primo piano, Pilato, che indica la condizione del Cristo prigioniero, con il gesto delle mani, retoricamente amplificato nel dipinto genovese dal compiaciuto (e supposto) Andrea Doria, nella parte di Pilato. Nel nuovo capolavoro di Caravaggio non c’è finzione, teatro; c’è la realtà nuda e cruda, in una perfetta sintesi.

L’Ecce Homo di Palazzo Bianco a Genova attribuito erroneamente da Roberto Longhi a Caravaggio.

E, rispetto all’antonellesco, come lo sentiva Roberto Longhi, Cristo di Genova, composto e rassegnato, il Cristo di Madrid ha una fonte più plausibile, come per predestinazione, nel tardo Ecce Homo di Tiziano al Prado, dove l’attitudine dolorosa e l’inclinazione della testa suscitano in Caravaggio una citazione più plausibile e credibile di quella di Antonello. Altrettanto notevole, per la allucinata disperazione del volto, e per l’ombra della testa del Cristo che lo investe come una premonizione, è la figura del carnefice che tiene fra le mani il mantello rosso con cui ricoprire il Cristo. Nulla di più caravaggesco della presa del pugno che stringe quel lembo di stoffa. Il personaggio in ombra, disturbato, da se stesso, sembrerà un suggerimento per Tanzio da Varallo.

Tiziano Vecellio, Ecce Homo, 1570-1576. Museo del Prado, Madrid.

Come lo stesso Caravaggio ci avverte, l’opera è concepita poco dopo l’Incoronazione di spine, di cui la più nota è la versione Cecconi ora a Prato (quella appartenente al collezionista e avvocato fiorentino Angelo Cecconi, che acquistò l’opera dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Prato, ndr), quindi tra il 1605 e il 1606, nel momento più drammatico della sua vita, che coincide appunto con la tenebrosa Cena in Emmaus, dipinta nei feudi dei Colonna dopo la fuga da Roma, e in cui avvertiamo l’ombra di un irredimibile senso di colpa, che si esprime in uno stile “rapido e sprezzato”, come osservava ancora Roberto Longhi.

L’Incoronazione di spine attribuita a Caravaggio, oggi a Prato.

Infine, grande e inedita soluzione spaziale, per “distanziamento morale” dall’orrore e dalla “malattia” del
turpe episodio, è il parapetto in primo piano, nella insolita foggia di un segmento di binario ferroviario. Un avviso a Kounellis. Secco, sintetico, drammatico senza retorica, così come sarà fra poco nella Flagellazione di San Domenico a Napoli (oggi a Capodimonte). Questa è la cifra del nuovo e inconfutabile Ecce Homo di Caravaggio.

Michelangelo Merisi da Caravaggio, La Flagellazione di Cristo, 1607-1608, Museo nazionale di Capodimonte, Napoli (in deposito dalla chiesa di San Domenico Maggiore).

Chi l’ha scoperto per primo?

Comincia adesso la corsa a ostacoli per rivendicare il primato della scoperta del Caravaggio a Madrid, ovvero chi sia stato il primo studioso, o conoscitore, che lo ha riconosciuto. Si è subito chiamato fuori Nicola Spinosa, esperto di pittura napoletana del Seicento, che si era esposto (rimanendo sostanzialmente solo con Keith Christiansen) ad avvalorare come opera di Caravaggio la discussa Giuditta e Oloferne, apparsa in Francia nel 2014.

La Giuditta e Oloferne che Nicola Spinosa aveva attribuito a Caravaggio, attribuzione che non ha convinto la maggior parte degli studiosi.

Anch’essa, posta all’asta il 27 giugno del 2019, fu ritirata dalla vendita, ma per ragioni opposte rispetto al ritiro madrileno. Troppi gli studiosi non convinti, che, con i loro dubbi, hanno consigliato di accettare fuori asta un’offerta che non si poteva rifiutare, oltre i cento milioni di euro, con la mediazione di Christiansen, aduso ai rapporti con il mercato. E si capisce la decisione, non essendo l’opera di Caravaggio, e rischiando, a quelle cifre (partendo, all’opposto di Madrid, da una valutazione altissima), di andare clamorosamente invenduta. Questa volta l’entusiasta Spinosa è insolitamente prudente, e pensa a un caravaggesco di prima fila, anche se non propriamente Ribera.


Avanza invece, con il supporto de “la Repubblica”, Maria Cristina Terzaghi, che dice cose sagge, ma che non è stata certo la prima a riconoscere il dipinto. Tanto che lei stessa lo dichiara: “Nel giro di 48 ore è accaduto, insomma, quel che nella storia dell’arte in generale, e nella critica caravaggesca in particolare, non succede quasi mai: mercanti, antiquari, studiosi, direttori e curatori di musei hanno avuto lo stesso pensiero: è Caravaggio, e la voce si è sparsa! E nemmeno contava chi lo avesse detto prima, e chi dopo, anche se c’è un certo gusto per chi se ne è accorto (e tra i colleghi pervenuti alla stessa conclusione ricordo Stefano Causa, che mi ha chiamato sbalordito), era lui e basta, evidente come il sole di oggi”.

L’Ecce Homo di Madrid come si presentava prima del restauro (Fonte: Museo del Prado).

Appunto. E così il dipinto è stato ritirato dall’asta non solo e non soltanto per l’intervento del ministero della Cultura, su sollecitazione del Prado, ma, evidentemente, per l’“eccesso di offerte” che hanno evidentemente frastornato i proprietari del dipinto: 1.500 euro o 1 milione e mezzo, 15 milioni o 300 milioni di euro, in una escalation impressionante e plausibile. L’evidenza è tale che io ho anticipato di un giorno (l’8 aprile su “Il Giornale” e in una intervista al “Corriere della Sera”) gli stessi riferimenti, valutazioni e osservazioni della Terzaghi il giorno dopo (su “la Repubblica”), anche se non credo che l’opera, pure in una  collezione napoletana, appartenga al periodo napoletano del Caravaggio, ma cada un po’ prima, tra 1605 e 1606. Questione di un anno, ma per gli studiosi si tratta di differenze significative, soprattutto per una esperta del periodo napoletano del pittore. Non è rilevante, invece, la precedenza di un giorno, tale da far rivendicare una primazia sulla scoperta, come a una incollatura dall’arrivo, perché al primo sguardo, a colpo d’occhio, il dipinto si presenta come Caravaggio, “evidente come il sole di oggi”.

Riccardo Scamarcio nel film L’ombra di Caravaggio di Michele Placido.

Ma perché dunque tutti insieme, tra il 7 e l’8 di aprile del 2021? E, contestualmente, ho avuto notizia di una nota, con i nostri stessi argomenti, di David Jaffe, e di un parere chiesto dall’antiquario Altomani a Massimo Pulini, che ne scrive sull’“Avvenire”. La risposta è semplice: non bisogna disturbare il manovratore, ovvero i grandi mercanti che si affannano a capire, che interpellano studiosi (tra i quali la Terzaghi), che cercano certezze, in attesa del grande giorno. Fino a quel momento (io compreso, essendo in gara con la mia cordata), silenzio assoluto. Perché, pur con il vasto mormorio, la notizia della clamorosa vendita non diventi pubblica, con l’eccessiva curiosità e con il rischio degli effetti d’interdizione che sono poi, comunque, seguiti.

Quando il 7 mattina arriva la notizia che il quadro è stato ritirato, liberi tutti. E a quel punto ognuno è pronto a parlare, e a dire: io l’avevo visto, io lo sapevo, con compiacimento e vanità. Almeno quello, dal momento che non si può avere altro. Il “ristoro” della gloria. E lo dico, senza falsi moralismi e senza tirarmi indietro, perché se io avessi dovuto agire non nella prospettiva di un comunque formidabile acquisto, e quindi con una legittima speculazione, ma soltanto per il piacere della scoperta, per la soddisfazione di essere il primo, avrei dovuto scriverne il 25 marzo, il giorno in cui Antonello Di Pinto mi ha inviato, via WhatsApp, la fotografia dell’Ecce Homo, raccontandomi dell’interessamento di un celebre antiquario.


Per quindici giorni io ho tenuto gelosamente il segreto, mentre l’immagine cominciava a circolare nei telefoni di antiquari ed esperti, e la notizia si diffondeva come il venticello della calunnia.
Per capire chi è stato il primo a riconoscere Caravaggio dovremmo fare un confronto con le schermate dei telefonini. Potremmo così sapere quando se n’è accorta la Terzaghi che, come me, si è “svegliata” soltanto il 7 aprile.
La morale è che, davanti a una apparizione così clamorosa, i tanti interessi prevalgono sulla pura “speculazione” intellettuale, e tutti ci sentiamo obbligati al riserbo e alla consegna del silenzio.

L’evidenza di un capolavoro

Caravaggio, Deposizione, 1603. Olio su tela, cm 300×203. Roma, Pinacoteca Vaticana.

Potremmo dunque dire che la scoperta di questo Caravaggio è stata come l’inaugurazione di un’opera pubblica, almeno sul piano del godimento e della conoscenza: una scoperta corale, di assoluta evidenza, che non ha bisogno di altro che della sua stessa forza. È, appunto, l’evidenza di un capolavoro. Quella che io ho accostato alla fotografia del Miliziano morente di Robert Capa. C’è esattamente questo in Caravaggio.

Robert Capa, Miliziano Morente, 1936.

Dall’espressione di un volto, abbiamo l’impressione di essere invisibili e di sorprendere una realtà che si sta manifestando davanti a noi. Penso al Miliziano morente di Robert Capa, una fotografia fondamentale dell’epoca moderna, impressionante perché, pur potendo rappresentare il miliziano stramazzato a terra morto o nell’azione del combattimento, lo coglie nel momento della caduta, producendo un effetto che nessun pittore, nessuna posa predeterminata avrebbe potuto creare.

Michelangelo Merisi da Caravaggio, Cena in Emmaus, 1601-1602, National Gallery, Londra.

Ecco, quel tipo di scelta temporale, quel tipo di visione della realtà è, come vedremo in molti dei suoi dipinti, quello che interessa a Caravaggio: cogliere il momento decisivo. E in questo sta la sua sorprendente modernità: perché niente lo lega al suo tempo e tutto invece lo lega a un tempo psicologico, che è appunto quello di vedere la realtà così com’è e come si determina.

Michelangelo Merisi da Caravaggio, Sacrificio di Isacco, 1597–1598, olio su tela, cm 116×173. Princeton, Collezione Barbara Piasecka Johnson.

L’evidenza di un capolavoro, dunque: per “l’attimo decisivo” che ci consegna, spazza via gli sporadici dubbi di studiosi piccati e perdenti, e la stessa circospezione degli esperti del Prado. I quali hanno preso tempo per studiare quello che è lampante (il colpo di fulmine, l’amore a prima vista), dichiarando che il dipinto “riunisce molti elementi di interesse e merita uno studio approfondito per poterlo attribuire correttamente”.

C’è poco da attribuire. Caravaggio si presenta e si attribuisce da solo. L’Ecce Homo è un “Ecce Caravaggio“.

(2- Fine. La prima puntata di questo testo l’abbiamo pubblicata qua).

Il volume di Vittorio Sgarbi Ecce Caravaggio. Da Roberto Longhi a oggi (La Nave di Teseo, pagg. 264, euro 20) è acquistabile su Amazon.

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