Anselm, un Kiefer gigantesco e inarrivabile nella pellicola di Wenders

Anselm Kiefer è l’artista che seguo con passione da sempre: da Amsterdam 1987, allo Stedelijck Museum, quando ebbi quasi la necessità di sedermi su una panca in mezzo alla sala davanti alle Donne della rivoluzione, cinque metri di piombo completati dalla leggerezza di un erbario, o a Bologna nel ‘99, quando, grazie alla comune amicizia con il curatore Danilo Eccher, ebbi occasione di scambiare anche due parole non banali, o a Palazzo Ducale a Venezia nel 2022, in attesa di andare a Firenze, entro l’estate. In virtù di questa affezione, ma anche riscontrando in modo del tutto oggettivo una serie di analogie non casuali rispetto ai riferimenti letterari impiegati da entrambi: Celan, Bachmann, Chlebnikov, addirittura con primogeniture quali quelle riferite al filosofo misconosciuto Andrea Emo, che iniziai a leggere fin dopo la presentazione dei suoi testi teoretici da parte di Massimo Cacciari, nel lontano 1989. Una sorta di comunanza inconsapevole e fascinosa, sulla quale però non serve aggiungere altro.

Ebbene, sarà per questa militanza kieferiana di lunga data e per l’ostilità inspiegabile che ho nei confronti di chi chiama i personaggi famosi per nome: Oliviero (Toscani), Vittorio (Sgarbi), Francesco (Bonami), quasi a sottolineare una confidenza del tutto privilegiata, sono andato a vedere il film Anselm di Wim Wenders con qualche riserva, pur nella grande considerazione verso l’artista. Quanto a Wenders, pur stimato da lungo tempo, ma lontano dall’efficacia della sua straordinaria vena espressiva, ho trovato inspiegabili i peana nei confronti dello stiracchiato Perfect Days, film senza trama, che descrive come felicità quanto in Occidente rappresenta l’ultimo stadio della rinuncia alla vita: il minimalismo citato dal regista è sostenibile solo ad Oriente e si chiama wu-wei, vuoto procurato dal non-agire, pressochè irricevibile in Occidente, soprattutto se sovrapposto in modo del tutto improprio al nebbioso mindfullness.

Anselm viene descritto quindi come il secondo capolavoro di Wenders, suscitandomi più di qualche sospetto, rinforzato dalla stessa indicazione di MyMovies che lo descrive come: Una biografia […] che resta a misura d’uomo, amichevole e intima, cioè esattamente il contrario di quel che mi è apparso: colossale, assoluto, oltre-umano, settario, per i riferimenti “alti” di cui è intriso. Pare abbia visto quindi un Anselm privato, del tutto diverso dal racconto di chi sembra, in verità, non averlo neppure visto, tale la distanza dalla temperatura del racconto reale. Pure la mano del regista appare impalpabile, soverchiata dalla portata del rappresentato, se non nella goffissima scena con Kiefer-acrobata-sul-filo, bilanciato da un girasole gigante come contrappeso. Sicuramente moltissime le immagini da tenere a memoria, le sequenze da brivido scaturite soprattutto dall’assoluta straordinarietà dello scenario, che raccontano infatti il mondo gigantesco di Kiefer, senza precedenti nella storia dell’arte di tutti i tempi.

Dedali sotterranei con illuminazioni degne del film Il silenzio degli innocenti, antri d’argilla con scorci sghembi su opere magnetiche, installazioni monumentali, fuori scala, una moltitudine di case e casette, una città fittizia dedicata ad installazioni visionarie. Fotogrammi di un’infanzia patita da orfano, in mezzo alle macerie di città tedesche letteralmente annientate dai bombardamenti a tappeto, ma popolate da Lilith, la dea maligna della morte, nonchè protagonista di moltissime opere di Kiefer, che abita ancora quelle macerie, attualizzate oggi dall’artista che mai si è allontanato da quell’incubo. Incredibile la furia che spinge l’artista a realizzare decine, centinaia di opere grandi come palazzi, che l’artista dichiara anche di seppellire accatastate per dar loro il senso della storia, incendiate col cannello, coperte da colate di piombo fuso: dimostrazione di un tentativo indefesso di liberarsi da un giogo irrisolvibile che si rivela simmetricamente gioia e dannazione.

Il film si dilunga giustamente sulla diatriba nazista/non-nazista, riferendosi alle celebri opere, Le occupazioni, con l’artista in divisa della Wermacht (del padre) e con braccio alzato nel saluto hitleriano. Oggi Kiefer ci illustra un suo libro d’artista dedicato al cervello di Heidegger, nazista, vale ricordarlo, in progressiva, definitiva decomposizione, occupato da quell’idea malsana e degenerativa come da un cancro, sequenza che appare come un cammeo forse indispensabile per sedare quei dubbi, ma di fatto forzato, troppo puntuale rispetto al racconto complessivo. Così come si ricorda Kiefer chiosare che Non può dire oggi cosa sarebbe stato in quegli anni ’30, indicandoci indirettamente di non essere comunista (lo sarebbe stato anche allora) e di galleggiare in quella zona intermedia non definita. Ma l’antisemitismo, dimostratosi ancor oggi eterno, non potrebbe essere una discriminante in base alla quale prendere le distanze, pur con effetto retroattivo? Voglio credere a Kiefer, ma quel braccio alzato, quella divisa, quelle monumentali, inquietanti architetture presenti nelle sue opere, evidenti citazioni di Albert Speer, l’architetto di Hitler, sempre precisi riferimenti alla mitologia germanica, così caratterizzanti di quel regime, compongono un racconto tanto articolato quanto esaustivo di quel pensiero pangermanico che Kiefer alimenta anche con la sua monumentalità. Voglio credere a Kiefer, ma allora avrebbe potuto rinunciare alla dedica nei semi-invisibili titoli di coda, riconoscendo a Louis Ferdinand Céline, scrittore francese processato per antisemitismo, la scaturigine dell’intero progetto.

Kiefer fotografato con indosso l’uniforme della Wehrmacht del padre nella serie Heroische Sinnbilder. © Anselm Kiefer.

Anselm di Wenders mi rende un Kiefer gigantesco, inarrivabile per volontà e resa artistica, unico nella storia del Novecento e del successivo passaggio di Millennio, depositario di una potenza che rappresenta e che evoca ad ogni opera. Nei suoi scavi, nella sue vette disperse nel paesaggio delle torri celesti, nella incredibile serie di opere monumentali seguite strato-su-strato, Kiefer traccia le distanze, di fatto sbeffeggiando le altre artistar impegnate nella realizzazione affidata a terzi dei loro pupazzetti o degli animali tassidermizzati, delle strutture di tubi innocenti, dello spostamento di fabbriche decotte, dei neon che dichiarano ogni giorno una nuova banalità.

Anselm Kiefer Engelssturz (Caduta degli angeli ribelli) 2022-2023, emulsione, olio, acrilico, gommalacca, foglia d’oro, tessuto, sedimento di elettrolisi e carboncino su tela
cm 750 × 840 Copyright : © Anselm Kiefer. Foto Georges Poncet

Kiefer si erge quindi come gigante indiscusso del fare-arte, del dedicarcisi anima e corpo, del trovare un retroterra attendibile e prezioso, dimostrando che dalla Gran Madre, l’Arte, padrona del presente e del futuro di Umberto Boccioni nel primo decennio del Novecento, pressochè nulla è cambiato. Ragioni che mi spingono inevitabilmente ad interrogarmi su quanto stia concedendo all’arte nel mio studio, in presenza di tale colossale, incommensurabile determinazione.

Il film di Wim Wenders dedicato al grande artista tedesco racconta una personalità unica e straordinaria.

Forse sarà solo una suggestione, ma avverto una sensazione su tutte e penso, tra me e me, che Kiefer ne sarebbe, ad ultima istanza, intimamente complice: nella sua nietzschiana volontà di potenza, una parte significativa della sua ricerca sarebbe piaciuta sicuramente all’Ernst Jünger delle Tempeste d’acciaio, del Trattato del Ribelle, del Libro dell’orologio a polvere, come identità nazionale, come senso della storia, come narrazione, come terra, come piombo, come fuoco. Ma questa è un’altra storia.

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