Serrano, la bellezza (forse) salverà il mondo

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di Alessandro Riva

Dimenticatevi della spaventosa – a tratti quasi ultraterrena – glacialità dei cadaveri distesi sui lettini dell’obitorio. Dimenticatevi degli homeless coi loro sguardi profondi, feroci o disperati. Dimenticatevi i rivoltanti cappucci bianchi del Ku Klux Klan, le vecchie bandiere sudiste tenute a mo’ di cimeli dai nostalgici del segregazionismo, le svastiche sui drappi venduti a pacchi su ebay e i grotteschi bambolotti neri spacciati come innocui passatempi per bambini della buona borghesia bianca. Dimenticatevi i volti dei cowboy contemporanei, le acrobazie sessuali d’ogni sorta, i crocefissi immersi nei liquidi corporei, i santi e le madonne contemporanee, gli oggetti di tortura e le pistole puntate sullo spettatore. Dimenticatevi dei mille e più cimeli e delle reliquie del trumpismo, specchio perfetto del fascino tutt’altro che discreto dell’America profonda per la ricchezza, il successo, il glamour, la celebrità, l’arroganza e l’ostentazione del potere. Dimenticatevi dei conturbanti e meravigliosi scatti in grado di rappresentare i sogni, gli incubi e le fantasie più recondite della contemporaneità. Dimenticatevi di tutto questo, e preparatevi a ciò che Andres Serrano, il fotografo più estremo e più straordinariamente profetico che la scena artistica contemporanea abbia conosciuto, ha messo in serbo per voi nel suo nuovo ciclo di lavori.

Andres SERRANO, Pieta Orange, 2023, Courtesy of Galerie Nathalie Obadia Paris / Brussels

Serrano riparte da Michelangelo. Riparte dall’idea di bellezza, dal suo dramma nascosto e segreto e dal suo misterioso destino. Riparte – udite udite! – dalla pratica della pittura, dopo decenni di instancabile lavoro al riparo dell’obiettivo della macchina fotografica. Doom Of Beauty, Destino della bellezza, è il titolo del nuovo progetto di Serrano, oggi esposto alla galleria Nathalie Obadia di Parigi fino al 21 ottobre. Qual è il destino della bellezza? Che cos’è oggi la bellezza? A volerla prendere alla lettera, è l’immagine riflessa di un bello ideale, “puro” e “virtuoso”, secondo gli ideali neoplatonici, rintracciabile ovunque, ancora oggi, nella natura umana come nelle cose del cielo e della terra: questo, almeno, stando al titolo della mostra, citazione e retaggio michelangioleschi (Destino della bellezza è appunto il titolo di una celebre poesia di Michelangelo), come michelangiolesche sono alcune delle “citazioni” e rielaborazioni dei lavori esposti, oltre che di origine neoclassica o romana: vi compaiono infatti, tra gli altri, la Pietà Vaticana e il David, il busto di Bruto del Museo del Bargello di Firenze, ma anche il Cristo velato di Giuseppe Sanmartino della cappella Sansevero a Napoli, la Personificazione del Dio Nilo dei Musei Vaticani e alcuni busti e statue di epoca romana, tutti “scolpiti” e lumeggiati da Serrano con veloci tratti di colori, gialli, azzurri e rossi in testa, con un’aria di densa drammaticità che li rende insieme classici e straordinariamente contemporanei.

Andres SERRANO, The Nile God, 2023 Courtesy of Galerie Nathalie Obadia Paris / Brussels
Andres SERRANO, Michelangelo Brutus II, 2023 Courtesy of Galerie Nathalie Obadia Paris / Brussels

E bellezza morale e ideale è indubbiamente ciò che il “divino artista” – lo scultore dei Prigioni, del Mosè e della Pietà, nonché autore di uno dei più grandi capolavori della Storia del Rinascimento, il Giudizio Universale –, intendeva e traduceva non solo nell’arte plastica e pittorica, ma anche in poesia: bellezza che (si legge in controluce nella poesia che dà il titolo all’esposizione) è lo specchio perfetto di ciò che esiste nel regno delle idee: bellezza, dunque, come specchio non solo o non tanto della perfezione della natura umana, ma soprattutto come virtù dell’anima. Se Michelangelo, dunque, ripartiva dall’idea dei filosofi neoplatonici sulla bellezza esteriore come “copia” e specchio della vita interiore, certo è che Serrano, con un salto parabolico e iperbolico da quello che a prima vista apparirebbe come il punto massimo dell’abiezione cui l’essere umano giunge (la violenza, la morte, la povertà indotta dal capitalismo selvaggio, e ancora la degradazione, il culto delle armi, le ideologie aberranti del razzismo e del nazismo, tutti temi trattati dall’artista nei suoi cicli precedenti), a questa bellezza in realtà in un modo o nell’altro anch’egli ha sempre guardato, ben lungi dal voler invece degradare o sbeffeggiare i propri soggetti e i propri modelli.

Belli erano, infatti, a modo loro, i corpi stesi sui lettini degli obitori che lo resero famoso con il ciclo della “Morgue”, belli i volti degli homeless, belle, nella loro drammaticità, persino le reliquie dei riti, anche i più spaventosi e controversi, del contemporaneo: gli osceni drappi razzisti, i cappucci dei fanatici del Ku Klux Klan, la paccottiglia del trumpismo come malattia senile del capitalismo. Serrano, da sempre, cerca infatti di svelare con la sua fotografia, priva di enfasi retorica e di moralismo, ma di un’assoluta e austera perfezione formale, la verità nascosta o non detta della morale e dei costumi della società contemporanea. I suoi soggetti e comprimari sono stati gli oggetti, i feticci, le vittime e anche i carnefici dei complessi e contraddittori riti del contemporaneo. “Ho sempre creduto”, ha detto una volta, “all’idea di Marcel Duchamp che qualsiasi cosa sia arte”. Ricchi, poveri, vagabondi, senzatetto, gente sconosciuta e gente famosa e potente, madri, figli, adulti e bambini, uomini incappucciati e morti ammazzati, vittime e carnefici; e poi nature morte sotto forma di strumenti di tortura, feticci della società dei consumi, simboli di violenza e di sopraffazione o reliquie religiose. Tutto è passibile di essere arte, tutto, a conti fatti, è verità, dunque è arte. Quella di Serrano, infatti, è stata sempre una ricerca di profonda verità, anche sfidando i luoghi comuni, la retorica dilagante, la morale corrente.

Andres SERRANO, Cristo Velato, 2023 Courtesy of Galerie Nathalie Obadia Paris / Brussels

Oggi, si potrebbe dire che Serrano torni a casa. Trova la bellezza là dove la società l’ha sempre vista: nel confronto con i grandi artisti del passato, nella loro perfezione formale, nel loro genuino tentativo di elevare la forma verso un ideale di perfezione che è specchio del nostro stesso desiderio di ricongiungimento a un’unità di forma e contenuto, di bellezza e virtù, di unione col cosmo, con la natura e col divino. Il tutto è iniziato un anno fa, sfogliando cataloghi di opere del Rinascimento e dell’età classica romana. L’artista ha iniziato a colorarli, senza neppure pensare al perché lo stesse facendo. E, intervenendoci sopra, istintivamente li rendeva più drammatici, quasi un flusso di dolore e di tragedia ne ricoprisse, suo malgrado, le levigate superfici. “I disegni”, dice, “erano molto spontanei, quasi inconsci. Era un modo di liberarmi da un esilio autoimposto grazie al quale ho fatto arte non con le mie mani, ma con l’ausilio della macchina fotografica”. In quelle immagini, Serrano ha riconosciuto una forma di bellezza antica, spirituale prima ancora che formale. La vera bellezza, sostenevano i filosofi neoplatonici – e con essi Michelangelo –, è riconosciuta a un livello interiore, e la forma esteriore è come la copia che risveglia nella mente il ricordo dell’originale. Forse, rivedendo le fotografie delle statue michelangiolesche rivisitate da Serrano, anche in noi si risveglia e si riaccende qualcosa: il ricordo, la nostalgia, lo struggente desiderio di una bellezza che la contemporaneità ci ha fatto per troppo tempo credere perduta.

(qui l’intervista ad Andres Serrano su Trump, il trumpismo, la sua foto segnaletica e il culto della personalità)

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