Le diverse declinazioni dell’incisione alla Biennale di Olzai

La provincia nuorese, in Sardegna, è costellata di piccoli paesi e borghi adagiati su un sostrato culturale artistico ed enogastronomico millenario. Così, al frettoloso homo ludens contemporaneo, queste roccaforti del silenzio sono di fatto, terapeutiche, rigeneranti, tra montagne, strade sinuose e abitazioni di pietra locale. E soprattutto, di Case Baronali, nobiliari o di alto ceto che, tra il XVI e il XX secolo, esercitavano il potere nei vari territori dell’isola e che oggi sono diventate degli snodi culturali capaci di imbastire eventi di livello internazionale.

É questo anche il caso di Olzai, a pochi chilometri da Nuoro, e della Casa Mesina Cardia, struttura imponente e articolata, oggi sede espositiva indissolubilmente legata sì alla pittura sarda, ma anche, e soprattutto, all’arte incisoria, grazie alla figura di Carmelo Floris, olzaese che ha contribuito in modo decisivo a legare l’identità locale al linguaggio incisorio del Novecento. A lui è doverosamente intitolata la IV Biennale dell’Incisione Italiana, ospitata a Casa Mesina fino al 31 marzo 2025, organizzata dal Comune di Olzai, sotto la direzione artistica dell’incisiore e pittore Enrico Piras e con la curatela di Chiara Manca. Ben 36 artisti, per la prima volta anche internazionali, sono stati selezionati dal comitato scientifico composto da Maria Luisa Frongia, Chiara Gatti e Nicola Micieli: in tutto sono presenti 72 opere, di cui una per ogni artista (sempre scelta dal comitato) verrà acquisita dal Comune ed entrerà a far parte della pinacoteca.

Installation view ©Daniele Brotzu (Bentu Experience)

L’esposizione trova il suo sviluppo lungo i due piani della Casa, nelle numerose sale affrescate dai toni tenui che accompagnano la luce naturale e la diffondono con grazia tra le opere, senza mai coprirle, ma anzi accentuandole. L’allestimento di Chiara Manca è pulito, ma di quella pulizia sapiente e calibrata, mentre le opere nelle stanze vengono raggruppate in base ad una affinità di forme. La prima stanza è l’unica che presenta colore: il rosso intenso, decadente e labirintico delle Amare Rovine di Fausto de Marinis, si rapporta con la drammaticità delle grandi maschere ancestrali di Renato Galbusera mentre la vegetazione di Laura Stor aggiunge un tocco di poeticità con la sua natura rigogliosa in Fiori alla finestra. Le opere del maestro Enrico Piras, presenti lungo i corridoi ad accompagnare i visitatori nel percorso, sono xilografie e acqueforti che indagano paesaggi e oggetti olzaesi attraverso un rigore possente che si esprime in un unico colore: il nero.

©Daniele Brotzu Bentu Experience

Nelle altre stanze, l’esposizione mantiene sempre un livello qualitativo alto, costante: non ci sono cadute, anelli deboli, solo una maestria dispiegata in vari soggetti e tecniche, certe delle quali, come il bulino, la puntasecca e la maniera nera, richiedono una pazienza e una dovizia quasi religiosa. Solo chi sa di essere portatore di saperi antichi riesce a padroneggiare ed esaltare queste tecniche che non ammettono sbavature.

Fausto de Marinis, Amare rovine ©Daniele Brotzu (Bentu Experience)

I soggetti e i linguaggi sono i più disparati: ci sono le nature morte di Maristella Pau che celebra la semplicità e la fertilità della terra, mentre Salvatore Atzeni, in Il miracolo dell’olio, eleva la pratica agricola a un livello quasi sacro, raccontando l’antico legame tra uomo e terra attraverso la produzione dell’olio. E ancora I mulini della Manch di Giampaolo Dal Pra ci trasportano in un paesaggio quasi archeologia industriale, mentre Alessandra Cossu, in Quando sei qui con me, esplora l’intimità delle relazioni umane attraverso un’opera che mescola figure e simboli, suggerendo presenze invisibili che perdurano. Maria Antonietta Onida, con Nell’orto di Betta, ci porta invece in uno spazio domestico e quotidiano, dove la cura della terra diventa metafora di un legame affettivo e profondo con la natura e la vita rurale, reso attraverso dettagli accentuati e una narrazione diafana, mentre Giovanni Dettori, con Arianna, si muove su un piano più mitologico e narrativo, reinterpretando il mito classico attraverso una sensibilità contemporanea che trasforma il personaggio in simbolo di ricerca interiore e solitudine. O ancora le composizioni sospese tra il figurativo e l’atmosfera surreale di Vincenzo Piazza e le architetture fantastico-oniriche di André Beuchat.

Ma c’è anche l’astratto, con Gabriella Locci, che, in Passaggi di luce, abbandona il figurativo per concentrarsi sulle variazioni della luce, creando un’opera in cui il chiaroscuro diventa protagonista, invitando lo spettatore a immergersi in un’esperienza percettiva dinamica e meditativa. Anche Guido Navaretti, in Groppo, adotta un approccio quasi optical, concentrandosi su forme geometriche e texture che evocano il moto del cielo, mentre la polacca Malgorzata Chomicz propone un linguaggio materico, un rimando ai noduli degli alberi quasi osservati a livello microscopico, per trasfigurarne la realtà.

Guido Navaretti, Groppo ©Daniele Brotzu (Bentu Experience)

Il ponte comune tra queste opere è l’attenzione ai dettagli che si traducono in una forte tensione tra il micro e il macro, tra il singolo elemento (sia esso un frutto, un mulino o un raggio di luce) e la sua risonanza simbolica. Si tende a partire sempre dal familiare e dall’ordinario, soggetti che la magia dell’incisione, atto artigianale ancestrale, trascende in bellezze intime e universali.

L’importanza della storia dell’incisione, dunque, non è solo nell’atto stesso di incidere, ma nella capacità di questo linguaggio di adattarsi e di riflettere le trasformazioni del mondo artistico. Essa è sempre stata uno specchio dei cambiamenti sociali e culturali: dalla sua funzione riproduttiva e divulgativa nelle epoche antiche, alla sua trasformazione in medium artistico a sé stante, capace di esprimere concetti complessi e sofisticati. La Biennale di Olzai si pone come testimone di questa evoluzione, offrendo un panorama che attraversa le diverse declinazioni della pratica incisoria con opere che coniugano il virtuosismo tecnico e la tensione creativa con soggetti evocanti tanto la tradizioni quanto le nuove frontiere dell’espressione artistica.

Olzai, con la sua storia e il suo legame indissolubile con la figura di Carmelo Floris, si conferma dunque un luogo simbolico per l’incisione, che continua a rinnovarsi e a sorprendere.

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