La mutazione genetica delle sfilate di moda

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SFILATA:

s. f. [der. di sfilare2]. – 1. Il movimento di un gruppo numeroso di persone che avanzano ordinatamente in fila una dopo l’altra (v. sfilare2): la s. dei cadetti di marina; la s. degli atleti all’apertura delle Olimpiadi; la s. delle candidate al titolo di miss Universo; s. di moda, presentazione di nuovi modelli fatta da indossatrici o indossatori, sfilando davanti al pubblico.

Dunque sfilare, come da dizionario, ha indubbiamente a che fare con il camminare. Addirittura, in inglese, specificatamente per la sfilata di moda, si dice: catwalking, passerella. Probabilmente per quella camminata sinuosa, felina, che ogni modella professionista sa ripetere alla perfezione. Bene, ho l’impressione che, dopo decenni di sfilate a cavallo di due secoli, nei posti del mondo che contano per la moda, i trendsetters più acuti e brillanti, forse anche inconsciamente, stanno puntando ad un cambiamento del modo di presentare i capi anzi, più che ad un cambiamento, stanno contribuendo ad una mutazione genetica. Da più tempo, infatti, le sfilate mescolano gli abiti con lo show, la musica con le luci, ma fin qui nulla di strano, per attirare l’attenzione e gremire una sala, vale tutto. Vengono ideati momenti esclusivi, in aree riservate e protette, come in club chiuso a nuovi soci. E, per i più che restano fuori, la voglia di esserci senza poterlo accende ancor di più il sogno e il desiderio verso la grande moda. Poi, un giorno qualsiasi, qualcuno evidentemente predestinato ad aprire nuove strade, decide che i luoghi pubblici – metropolitani o, ancor meglio, gli spazi naturali – probabilmente si prestavano ad essere i nuovi set di questa dimensione che, casualmente o forse per assonanza, accosta la parola fashion, dunque moda, al verbo affascinare, perché di questo parliamo quando parliamo di moda. Ma il mondo dell’abbigliamento necessita non solo di idee – la parte concreta di questo lavoro – ma anche di qualcosa di più, perché le idee, in questo settore, vanno a loro volta vestite di sogno, atto che serve, a chi produce, non a dialogare con i consumatori in quanto tali ma a trasformarli in altro, ad affiliarli, estendendo ed allargando il concetto a club elettivo.

Qui inizia la fase in cui un brand si cosparge di appeal – come se questo fosse illuminato dalla polverina magica di Trilly nell’indimenticabile Peter Pan – vengono aggiunti eventi e momenti clou, in cui spesso il capo diventa comparsa perché, in determinati istanti di show puramente scenici, nessuno pensa ad un accessorio o a un capo da indossare, ma piuttosto a come quel tal nome o  quel talaltro ci stiano simpatici, e quanto – forse questo il recondito pensiero – sarebbe il brand stesso a trarne giovamento se fossimo noi a indossare uno dei loro capi. Per questo l’asticella dei modi di enfatizzare una marca si è alzata molto negli ultimi decenni – vuoi per la concorrenza molto ficcante – ma anche perché, nella spietata giungla del consumo, vince chi sa come parlare soavemente a chi acquista. Di me ovviamente non dico nulla – al limite, ripeto spesso – il mio sogno è sempre stato quello di “vestire tutti”, obiettivo che mi ha appassionato a tal punto che ora, che mi sento di dire che non sono lontano dal concretizzare questo desiderio, sono più interessato a vedere come gli altri operatori di settore sviluppano le proprie idee per catturare i sogni degli altri. E qui vorrei citare, non solo perché mi è amico, ma anche perché lo reputo un top player del mondo del fashion e non solo, Remo Ruffini che, nel giro di 20 anni, ha messo tanta di quella polverina di Trilly nell’allora piccolo, ma stimato marchio Moncler che, a guardare indietro, sembra davvero una magia quello che ha fatto del brand nato in  montagna.

Questo penso da sempre di Remo, e ho avuto l’ennesima conferma pochi giorni fa quando, invitato da Moncler, ho partecipato alla caleidoscopica sfilata (o camminata? O ciaspolata?) notturna, avvolto dalla neve, pervaso dal gelo pungente e secco della notte di Saint Moritz che rendeva tutto a suo modo psichedelico, favolistico. Lo cerco ma non lo trovo un aggettivo coerente con quello che ho visto.

Emozione secondo natura”, queste le prime tre parole che mi venivano in mente osservando l’apparizione, tra gli alberi che grondavano neve fresca, delle decine di modelle e modelli che non lasciavano trasparire alcuna emozione per essere lì, convocati per convivere con il freddo, per entrare di diritto in una scenografia indimenticabile. E così, nell’irreale silenzio della radura immacolata e silenziosa (per non disturbare l’ambiente ciascun invitato fu fornito di cuffie con cui ascoltare la colonna sonora che accompagnava l’incedere a rallentatore, frenato dalla neve, dei 91 modelli) ho assistito a questo esperimento lunare che, dal mio punto di vista, ha definitivamente spostato in avanti le lancette dell’orologio che hanno regolato sin qui la sfilate e che, forse impropriamente, ci ostiniamo a chiamare in questa maniera quando in realtà, in casi come questi, la parola giusta da usare sarebbe, molto semplicemente, magia

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