Frank Stella, una vita a cento all’ora. Cambiando sempre e rimanendo sempre se stesso

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Si è spento nella sua casa nel West Village di Manhattan, all’età di 87 anni, Frank Stella, uno dei più grandi pittori americani del Novecento, che scardinò i tradizionali concetti di pittura e di astrazione, sperimentando incessantemente forme, equilibri, colori, supporti, materiali. L’impatto di Stella sull’astrazione, ha scritto il critico Peter Schjeldahl del New Yorker, “è stato qualcosa di simile a quello di Dylan sulla musica e di Warhol su più o meno tutto”. La sua carriera fu fulminea e inaspettata, ed ebbe inizio nel 1959, quando in America furoreggiava l’espressionismo astratto di Pollock e De Kooning: fu allora che quel ventitreenne dai grandi occhiali dalla montatura spessa e l’aria un po’ strafottente fece il suo ingresso nel mondo dell’arte con una serie di grandi quadri a strisce nere dai titoli astrusi, come Il Matrimonio tra la Ragione e lo Squallore. Veniva dalla Princeton University, una delle più esclusive facoltà americane, e diceva di amare l’astrattismo geometrico di Mondrian e la semplicità di Jasper Johns.

Per il coté artistico newyorkese fu uno shock: quella “fredda, saccente e seriosa metodicità”, come la definì il critico Irving Sandler, era uno schiaffo a tutto ciò che l’arte rappresentava in quel momento. Altri invece ne furono scioccati, ma in senso positivo: lo storico dell’arte William Rubin, sulla rivista Art International, si dichiarò “quasi ipnotizzato” dalla “presenza inquietante e magica” dei dipinti. Presto, molto presto, avrebbero imparato tutti ad accettarlo, e per molti artisti arrivati successivamente sarebbe diventato un punto di riferimento fondamentale nella ricerca di una pittura sempre più severa, rigorosa, minimale.

Frank Stella, Hyena Stomp, 1962.

Quanto a lui, rifiutò sempre ogni tentativo di interpretazione del suo lavoro. Il senso del mistero, sosteneva, era una questione di “ambiguità tecniche, spaziali e pittoriche”. Una delle sue frasi che rimase più famosa era: “ciò che vedi è ciò che vedi” – una formulazione che divenne una sorta di motto del minimalismo.

Gli esordi: dall’Università alla vita d’artista

Nato il 12 maggio 1936 a Malden, una cittadina a pochi chilometri da Boston, nel Massachusetts, da un ginecologo e da una casalinga di origine siciliana, Stella cominciò prestissimo a interessarsi alla pittura. Fin dalle scuole medie, infatti, trovò sul suo cammino professori che lo fecero appassionare all’arte: in particolare a quella astratta. Stella si trovò così a masticare la pittura di Franz Kline e Patrick Mondrian prima ancora di conoscere la lezione degli antichi. I suoi primi dipinti erano costituiti da piccole composizioni geometriche di forma rettangolare. All’Università, seguì i corsi di Stephen Greene, un pittore di una certa fama nella scena artistica newyorkese di quegli anni. Ma il suo primo incontro importante con l’arte avvenne all’inizio del 1958, quando cominciò a battere tutte le gallerie newyorkesi per vedere di persona quali fossero gli artisti emergenti del momento. “Era un periodo straordinario”, avrebbe raccontato l’artista molti anni dopo. “Nelle gallerie potevi vedere quello che gli artisti stavano facendo. Non quello che avevano fatto, ma quello che stavano facendo proprio in quel momento. Quando De Kooning dipingeva qualcosa nel suo studio, lo vedevi in una galleria tre settimane dopo. E poi, se ne avevi voglia, potevi andare a vederlo sbronzarsi al Cedar bar”.

Fu così che, girando di galleria in galleria, s’imbatté nella prima personale di Jasper Johns alla neonata galleria di Leo Castelli, non lontano dalla Quinta strada (soltanto un anno dopo, Castelli sarebbe diventato anche il suo gallerista). I bersagli e le bandiere di Johns lasciarono un segno profondo su Stella. Dopo pochi giorni, cominciò a dipingere le sue prime tele con le strisce e i rettangoli. Il primo quadro di quella serie, Un giorno ideale per i pesci-banana, era ispirato a un celebre racconto di Salinger, l’autore del Giovane Holden, con cui l’artista si era identificato molto in quel periodo. Anche in seguito, l’abitudine di intitolare i suoi lavori con riferimenti a opere letterarie non lo abbandonò mai: basti pensare che, nel 1986, dedicò un’intera serie di lavori alle Fiabe italiane curate da Italo Calvino, e più tardi, intorno al 1992, ne dedicò un’altra alle diverse scene del Moby Dick di Melville.

Frank Stella nel 1967 nel suo studio a New York (Foto David Gahr/Getty Images).

“Frank era un artista decisamente atipico per la sua generazione”, mi raccontò una volta Barbara Rose, ex moglie di Stella (sono stati sposati dal 1961 al 1969), oltre che affermata critica e storica dell’arte, nel corso di una lunga chiacchierata in cui mi parlò della sua giovinezza e di quella dei suoi amici artisti nella New York degli anni Sessanta. “In genere, infatti, gli artisti americani degli anni Cinquanta provenivano da famiglie povere, spesso di immigrati, e avevano alle spalle studi approssimativi o da autodidatta. Frank, invece, come me, veniva da una delle migliori università americane, aveva una solida educazione borghese, fatta di buone letture e di studi filosofici. Per questo, noi, con i nostri amici artisti dell’ultima generazione, come Claes Oldenburg o Donald Judd, ci sentivamo un po’ come degli emarginati, dei diversi. Ma eravamo fieri di esserlo, perché sapevamo di stare dalla parte giusta”.

“Lo stile? Non so che cosa sia”

Una sicurezza, quella di fare la cosa giusta, che ha contraddistinto tutto il lavoro di Stella, permettendogli di non fossilizzarsi mai su una singola cifra stilistica, a dispetto delle critiche e delle incomprensioni. “Lo stile? Non so che cosa sia”, ha detto una volta in un’intervista. “L’unico stile che conosco è quello della disperazione: tentare di fare quello che stai facendo al momento, quando non hai il senso né di te stesso, né di quello che ti accade intorno”. Una posizione estrema, che in passato gli ha procurato qualche difficoltà a farsi accettare. Anche dal mercato. “Per i primi anni, Stella ha ricevuto solo critiche e insulti”, mi raccontava ancora Barbara Rose. “La domenica ci trovavamo con tutti i nostri amici, compravamo i giornali con gli inserti culturali e ci divertivamo a leggere le porcherie che i critici avevano scritto su di lui. Naturalmente, non vendeva mai un quadro, e così non avevamo mai una lira. I mobili della casa li dovette costruire con le sue mani, e quando uscivamo dovevamo chiamare i nostri amici artisti, come Rauschenberg o Tinguely, perché facessero da baby-sitter ai figli. Poi, finalmente, una sera Frank è arrivato a casa con una bottiglia di champagne. Era il 1967. Io mi stupii, perché sapevo che di solito non beveva. Lui mi disse: ‘Finalmente ho venduto un quadro’. E pensare che era già alla sua ottava mostra, ed era conosciuto in tutta l’America!”.

Ma Stella è sempre stato soprattutto un formidabile sperimentatore. Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, Stella cominciò a fare a pezzi le sue tele: non più rettangolari o quadrate, le loro forme rincorrevano tutte le possibilità offerte dalla geometria. Dapprima vennero i quadri della serie “Protractor” (in italiano, “Goniometro”, a partire dallo strumento usato per realizzare la composizione): dipinti affollati di semicerchi sovrapposti di colori brillanti, a volte fluorescenti, dei quali il critico Hilton Kramer del New York Times scrisse che “portano l’intera nozione di astrazione cromatica a un punto di elaborazione quasi barocca” (“Sì, credo che il barocco mi abbia influenzato”, disse una volta l’artista: “mi ha aperto gli occhi su che cosa sia dipingere”). Ma le serie veramente barocche, coloratissime, piene di vuoti e di pieni, di forme e di materiali differenti, arrivarono in realtà dopo. “Non ero soddisfatto”, dice. “Inseguivo qualcosa che mi sfuggiva continuamente”.

Dalle tele sagomate (che furono una novità assoluta nella storia dell’arte), piene di incastri geometrici di ogni sorta, Stella passa, già nei primi anni Settanta, alla serie Polish Village (Villaggio polacco), che costituì il primo tentativo di abbandono della pittura pura in favore della terza dimensione. Se lo stile dell’artista è ancora rigoroso e minimalista, il gioco dei pieni e dei vuoti, delle sagome ritagliate in maniera ogni volta differente, la capacità di dialogare con lo spazio offrono un punto di vista diverso sull’opera. Il lavoro di Stella si è infatti sempre svolto all’insegna dell’inquietudine e del cambiamento.

Frank Stella, Salta nel mio Sacco (1984) © ARS, NY and DACS, London 2024.

Se le tele nere del primo Stella erano una sfida all’espressionismo astratto, alla teatralità del gesto (“Riportare l’arte all’osso”, diceva a quel tempo l’artista), più avanti il movimento dell’artista si può dire che procedette all’inverso: dal “togliere” all’aggiungere, dal sottrarre al moltiplicare. Eppure, Stella non ha mai visto vere differenze tra le sue tele degli inizi e quelle più recenti. “Si tratta sempre dello stesso Stella, checcé ne pensino i critici”, dichiarò una volta. “Le idee di un artista, nel corso del tempo, possono subire un’evoluzione ma fondamentalmente non cambiano. Tra i miei primi lavori e quelli degli ultimi anni c’é una precisa continuità strutturale”.

“C’è un metodo in questa follia”

A partire dalla metà degli anni Settanta, in un momento in cui gallerie, musei e collezionisti avevano occhio solo per la pittura minimalista, concettuale e cerebrale, lui compì il salto che lo portò per primo nell’esuberanza eccentrica degli anni Ottanta, con una serie di quadri-sculture sempre più colorati, dalla forma imprevedibile e bizzarra, pieni di segni e di graffiti, che molti critici avrebbero definito “barocchi”. Bassorilievi in cui, dominati dal colore, convergono legno, cartone, stoffa, e, naturalmente, tela. “Falegnameria”, sentenziò un critico dei maggiori, Hilton Kramer. “Stella ha abbandonato la pittura a favore della scultura”. L’artista incassò senza ribattere e senza cambiare rotta, mescolando, assemblando supporti e materiali, reinventando il metodo stesso del fare pittura. Un altro critico, Robert Rosenblum, fu più chirurgico: “C’è sempre un metodo in questa follia”.

Ancora una volta, Frank Stella sfidava il mondo dell’arte. “Là c’era il rigore, qua c’è l’energia”, avrebbe spiegato a chi gli contestava tanta diversità stilistica. Questi “dipinti massimalisti”, come li chiamava, erano colorati, gioiosi e pieni di energia, anni luce lontani dalla minacciosa autorità dei dipinti neri. “La pittura su questi metalli è un modo per infondere loro il soffio della vita. La pennellata, i colori, si possono paragonare al flusso circolatorio nel corpo umano”. Questa nuove serie di lavori serviranno, tra l’altro, come biglietto da visita per la fase successiva di Stella, come progettista di grandi opere pubbliche. Con la sua serie di rilievi d’alluminio, cosparsi di segni misteriosi e dipinti in toni accesi e contrastati, dimostrò di saper davvero captare ciò che si muove sotto la pelle della società, anticipando il gusto degli anni successivi.

Nel 1979, la prima, grande antologica al Moma, il Museum of Modern Art di New York, lo avrebbe consacrato come uno dei più affermati artisti della sua generazione. Ma, nonostante la fama, Stella non ha mai perso la sua vena polemica e anti-conformista. Lo dimostrò nel 1983, quando, fermato dalla polizia mentre sfrecciava a 160 chilometri all’ora su una strada poco fuori New York a bordo della sua Ferrari Testarossa color argento, venne arrestato e lasciato a marcire un’intera notte in galera. Il magistrato che lo giudicò, anziché fargli pagare una multa, lo costrinse a tenere una serie di lezioni gratuite in una scuola d’arte. Stella non si perse d’animo, e preparò delle conferenze che sarebbero rimaste memorabili.

Frank Stella, k.162, 2011, mixed Media, 22 x 22 x 24 inches.

In queste lezioni, l’artista sosteneva che l’arte contemporanea era in crisi. Una crisi paragonabile a quella che, alla fine del Cinquecento, visse la pittura italiana dopo Leonardo e Michelangelo. A quel tempo, la crisi venne superata grazie alla “nuova concezione dello spazio” creata da Caravaggio. Anche ai giorni nostri, secondo Stella, la pittura è in crisi, e avrebbe bisogno di una nuova concezione dello spazio: “Lo spazio creato da Caravaggio è qualcosa che la pittura del XX secolo potrebbe utilizzare: un’alternativa sia allo spazio del realismo convenzionale sia allo spazio di quella che è diventata pittorica convenzionale”. La sua capacità di sperimentare e di guardare oltre la superficie della tela rimarrà uno dei suoi grandi punti di forza.

Ma soprattutto, per Stella l’arte, la pittura sono state sempre una questione di stile, e mai di contenuti. “Io non credo che la gente dipinga quadri per esprimere idee sulla storia, su Dio o su un Credo politico. Prima di tutto fa pittura”, dichiarò. Ancora adesso, poco prima di morire, continuava, instancabile, a sperimentare e a dipingere.

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