Hope, il futuro che verrà al Museion di Bolzano

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Hope è l’ultimo ciclo del progetto di TECHNO HUMANITIES presentato al Museion di Bolzano, curato da Bart van der Heide e Leonie Radine con la collaborazione di DeForrest Brown Jr.

Quale futuro attende l’animale umano del terzo millennio? Possiamo fare predizioni con l’ausilio dell’intelligenza artificiale, progettare scenari avveniristici, immaginare umanoidi, e disegnare spazi reali o virtuali da attraversare, tra desideri, aspirazioni e paure. Eppure, il futuro che verrà [1] (per riprendere il titolo di un saggio curato da Jim Al-Khalili, docente di fisica teorica), è già tra noi. 

Il Museion (Museo di Arte Moderna e Contemporanea) di Bolzano trasforma la sua architettura futuristica in un contenitore di sguardi e visioni con il terzo capitolo di TECHNO HUMANITIES, un ciclo di tre mostre iniziato nel 2021. Se il primo affrontava il concetto di solidarietà, scaturito dalla techno come motore di aggregazione, il secondo rifletteva intorno al corpo sano e malato e alle sue cure. Per il terzo episodio si guarda al futuro con HOPE. Un “futuro cancellato” per il critico culturale Mark Fisher (1968-2017), che delineava l’impossibilità di staccarsi dal passato, tanto da non riuscire a ripensare il futuro. Eppure, i curatori Bart van der Heide e Leonie Radine in collaborazione con il musicista, teorico e scrittore DeForrest Brown, Jr., sono riusciti a tratteggiarlo un futuro. 

Nicola L., Beatrice Marchi, Andrei Koschmieder, exhibition view HOPE. Museion 2023. Photo Luca Guadagnini

Generazioni e linguaggi diversi raccontano un tempo non lineare ma intergalattico, che accoglie all’interno della navicella-museo. Il passaggio al futuro è chiaro già sulla soglia con le stelle di Petrit Halilaj e la scritta OPEN di Riccardi Previdi, che indicano l’ingresso verso un nuovo mondo. Un viaggio che ha inizio dall’ascensore con l’installazione sonora Aui Oi (su e giù in tirolese) di Ulrike Bernard e Caroline Profanter, che conduce all’ultimo piano, senza soste intermedie. Solo da lì la discesa è libera e riporta agli allunaggi scultorei e sonori del piano terra con Allora & Calzadilla, insieme ai suoni di ALMARE, al Jukebox futuristico di Tacita Dean, o alla techno di DeForrest Brown J.. Quest’ultimo accompagna le immagini che raccontano il mito della creazione afrofuturista del regno dei Drexicya di AbuQadim Haqq, del secondo piano, e l’area lettura di Damian Duffy & Reynaldo Anderson. Le capsule immaginate nel layout espositivo tratteggiano un itinerario con gli ibridi uomo-natura di Linda Jasmin Mayer e quelli post umani di Michael Fliri. Le sculture di Nicola L. diventano indossabili, così come i tessuti di Ana Lupas, tra visioni transumane di Shūsaku Arakawa, immersioni spazio-temporali con i lavori di Black Quantum Futurism, Ei Arakawa e le finestre di Trisha Baga.

Sonia Leimer, exhibition view HOPE. Museion 2023. Photo Luca Guadagnini

Emerge l’ossessione della memoria storica come nei video di Tony Cokes. Ma anche di quella personale e collettiva, immaginando le biblioteche non ancora scritte di Ilaria Vinci e futuri musei di Suzanne Treister, i collage di ricordi notturni nei video di Maggie Lee e in quelli di Sophia Al-Maria. Oggetti contemporanei trasfigurati come il frigorifero-sarcofago di Bojan Šarčevič, i calchi di valigie in alluminio di Andrei Koschmieder, i blocchi di resina che inglobano le maschere africane di Matthew Angelo Harrison, e le immagini in rilievo in MDF di Neïl Beloufa, diventano un modo per interrogarsi sui concetti dominanti delle società attuali. Così come le prospettive dell’obiettivo sovradimensionato di Beatrice Marchi, e quello verso il cielo pensato per l’Apple Watch (indossato dal personale di sorveglianza) di Irene Fenara, consentono punti di vista alterati. Ricerca di facoltà divine umane e rimedi alla sofferenza di Luyang, nuovi elisir di Marina Sula, riprogrammazioni scultoree di bioingegneria di Shu Lea Cheang, isole guaritrici di Lawrence Lek e rottami spaziali di Sonia Leimer, sovvertono la conoscenza, facendosi interpreti di quelle perturbazioni fisheriane [2], in cui ciò che è fuori posto diventa il futuro possibile. Un futuro in cui l’esperienza si fa più fisica con la performance di Trajal Harrell per Transart, e le esplorazioni fantascientifiche di Thomas Feuerstein al Parco tecnologico di Bolzano NOI Techpark. 

HOPE è un viaggio. Uno di quelli da intraprendere partendo leggeri, con poche cose al seguito. Bisogna dimenticare le zone di comfort, e le conoscenze acquisite fino a qui, spogliarsi dalle paure (anche la mia dell’ascensore), e sprofondare nel piacere della scoperta. Quel che resta dell’uomo contemporaneo rimane alle spalle. L’immersione nelle sonorità e nelle fascinazioni del futuro è totale. Ciò che emerge, nonostante la presenza e l’invadenza dei simboli delle società del terzo millennio, è l’affermazione di un principio universale in cui l’immaginazione umana resta ancora il luogo migliore in cui ipotizzare il futuro che verrà.

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