Divine creature: la storia dell’arte, la fede e la bellezza abbracciano la disabilità

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La prima volta che una persona disabile entrò a far parte dei “soggetti” privilegiati dell’arte fu nel maggio del 1972, quando Gino De Dominicis, allora giovane artista fortemente sperimentale e radicale, “espose” nella sua sala alla Biennale di Venezia un ragazzo di 27 anni affetto da sindrome di down, Paolo Rosa. Per tutti, e per molto tempo, quell’opera (e quella persona) saranno maldestramente etichettate come “il mongoloide” (era infatti ancora lontano il tentativo, oggi molto diffuso, di rendere inclusivo e non discriminatorio anche il linguaggio), che De Dominicis aveva esposto, secondo la vulgata comune, “per provocazione”. Ma la parola provocazione vuole in realtà dir poco. Quel che è certo, è che De Dominicis spiegherà più volte quel lavoro, soprattutto in seguito alle polemiche che ne seguirono, come “il cambiamento di un punto di vista”, cioè di “quell’unico e particolare punto di vista interno all’opera stessa e opposto a quello degli spettatori” che era lo sguardo di Paolo Rosa.

Davanti a lui, infatti, stavano alcune sculture di De Dominicis: un Cubo invisibile, una Palla di gomma (caduta da due metri) nell’attimo immediatamente precedente il rimbalzo, una pietra di granito intitolata Aspettativa di un casuale movimento molecolare generale in una sola direzione tale da generare un movimento spontaneo del materiale… la “provocazione” di De Dominicis, dunque, era quella di mettere un punto di vista “diverso” sul mondo e di mettere quel punto di vista al centro, come a ricordare a noi stessi che non c’è un solo modo di vedere la realtà. “Per De Dominicis”, scriverà il critico e storico dell’arte Gabriele Guercio, “la sindrome di Down non è una malattia ma uno stato dell’essere. Il giovane che sedeva di fronte alla palla, alla pietra e al cubo invisibile andava inteso come un extraterrestre”.

L’arte è sempre suscettibile di interpretazioni anche molto diverse tra di loro, ma è certo che, dal quel 1972 a oggi, molte cose sono cambiate, e tra queste anche lo sguardo verso le tante forme di disabilità, e il modo di vederle, di rappresentarle, di sentirle nella grande “famiglia umana” di cui tutti facciamo parte. Tra gli altri, anche Oliviero Toscani, che, nel 2019, nell’ambito del progetto “La disabilità senza aggettivi”, ha immortalato alcuni atleti paralimpici con la forza, la bellezza e la prestanza di atleti dell’antica Grecia. Ora è una mostra, “Divine Creature” (proveniente da prestigiosi spazi in tutt’Italia, dai Musei Vaticani a Roma al Museo dell’Opera del Duomo di Firenze, passando per Rimini, Pisa, Pistoia e Bergamo), oggi ospitata al Museo Diocesano di Milano fino al 14 aprile, a riportare al centro dell’attenzione il tema della disabilità.

La mostra, curata da Adamo Antonacci e proposta dal Museo Diocesano con la Consulta diocesana Comunità cristiana e disabilità, presenta dieci scatti realizzati dal fotografo Leonardo Baldini – fotografo e videomaker toscano molto impegnato nel sociale –, i protagonisti dei quali sono per l’appunto persone con disabilità: ma, a rendere insieme straordinariamente vitale e giocosamente pop l’operazione, è il fatto che le scene all’interno delle quali i personaggi sono raffigurati sono tratte dalla grande storia dell’arte, e, in particolare, ritraggono, tutte quante, episodi della vita di Cristo o inerenti alla sua venuta, interpretate, nel corso dei secoli, da alcuni dei più grandi artisti della storia.

Come la stupenda Annunciata di Antonello da Messina, magistralmente interpretata, nel set di Leonardo Baldini, da una donna con sindrome di down; o come un’altra Annunciazione, quella di Caravaggio, anch’essa mirabilmente ricostruita, con un’attenzione quasi maniacale ai particolari e un’impressionante capacità mimetica dei protagonisti di calarsi nella parte. Ci sono poi l’Angiolino musicante del Rosso fiorentino, l’Ecce Homo del Cigoli, al secolo Lodovico Cardi, entrambi fedeli al modello originale ma leggermente spiazzanti nella loro resa fotografica.

Ecco, poi, il Trasporto del Cristo al sepolcro del pittore svizzero ottocentesco Antonio Ciseri; ecco il meraviglioso Cristo e il Cireneo di Tiziano; il Cristo morto del Mantegna, reso quasi più drammatico e dolente, nella sua profonda umanità, di quello del Mantegna conservato a Brera; e ancora, una straordinaria Adorazione del Bambino del secentesco Gherardo delle Notti, reinterpretato con grazia ed eleganza rare da tre bambini, bravissimi nel calarsi nella parte; poi la Cena in Emmaus del Caravaggio, fino al novecentesco Bacio di Giuda, di Giuseppe Montanari: tutti ricostruiti in maniera attenta e filologicamente impeccabile, ma, sempre, aventi come protagonisti uomini, donne e bambini portatori di disabilità di volta in volta diverse. Ma tutti, straordinariamente bravi e ispirati nel calarsi magistralmente nella parte, per cercare di darci “un altro punto di vista” sul sottile crinale che divide quelle che un tempo venivano chiamate “normalità” e “anormalità”, sulla bellezza, la grazia, la compassione, la capacità di empatizzare con gli altri e con i grandi temi della fede, della spiritualità e della storia al di là della propria

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