Biennale, migrazioni al centro. Nei Padiglioni di Cile, Libano, Turchia, San Marino

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Il titolo della Biennale di Venezia come abbiamo già raccontato è Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere. Sarà una Biennale, quindi, che coniugherà le diverse accezioni del concetto di straniero, come emarginato, immigrato, rifugiato, esule, indigeno, queer.

La migrazione è una realtà che si offre a una profonda e consapevole trasposizione nell’arte. Non a caso, già numerosi artisti dalla fine dell’Ottocento l’hanno affrontata. Negli ultimi decenni del XIX secolo, fu il Verismo, infatti, a documentare le disuguaglianze e le miserie dell’Italia post-unitaria attraverso vere e proprie opere di denuncia sociale.

Ecco, dunque, come quattro artisti internazionali, figli di tempi e luoghi diversi, hanno voluto trattare questo tema nell’arte con la pittura, la scultura, la fotografia e la video arte.

Valeria Montti Colque (Foto Jean Baptiste Engblad Berange).

Valeria Montti Colque sarà la prima cilena in esilio a rappresentare il suo paese di origine alla Biennale di Venezia. Come molti altri dissidenti cileni, i genitori di Montti Colque si sono trasferiti in Svezia dopo il colpo di stato militare del 1973, e lei è nata a Järfälla fuori Stoccolma, dove vive ancora con la sua famiglia. Il progetto espositivo “Cosmonación” prende spunto dal termine, coniato dall’antropologo Michel S. Laguerre, secondo cui le comunità diasporiche non interrompono mai davvero i rapporti con i propri luoghi di origine ma vi rimangono attaccate.

Valeria Montti-Colque, Occhi di sale, Installazione Moderna Museet, maggio 2022 (Foto Tobias Fischer / Moderna Museet).

Le installazioni dell’artista sono mondi in cui i personaggi immaginari ricorrono e si evolvono nel tempo, toccando temi come le condizioni diasporiche, il razzismo, la maternità e l’ecologia. Traendo ispirazione dal mito, dalla religione e dalla cultura popolare, il lavoro spirituale di Montti Colque comprende pratiche rituali, performance, installazioni, disegni e murales. 

L’opera centrale, di questa Biennale, sarà un’installazione su larga scala a forma di montagnaMadre-Montaña (Mother-Mountain), circondata da videoproiezioni, ceramiche e un monumentale tessuto con una stampa figurativa. Montti Colque è discendente degli Aymara, una delle popolazioni indigene delle Ande sudamericane e dell’Altipiano della Bolivia e del Perù, e il suo contributo è influenzato dall’idea dei nativi che vedono la montagna come luogo di riposo degli antenati. Si collega anche ai fjelds, una catena montuosa nel nord della Svezia dove immagina che la sua anima possa trovare un giorno un posto dove riposare.

Valeria Montti-Colque, Umah, 2023 (Foto José Figueroa, courtsy Kottinspectionen).

La scena artistica in Cile riflette una società classista caratterizzata da una misoginia profondamente radicata e da gerarchie razziali in cui i gruppi minoritari sono emarginati nella vita pubblica. La scelta di Montti Colque è stata criticata dalla stampa nazionale dove è stata descritta come una straniera, “la sueca” o “la donna svedese”. Ora, Montti Colque porterà la sua montagna di sogni alla Biennale di Venezia e installerà uno spazio in cui l’esperienza diasporica collettiva può essere vista, poiché anch’essa fa parte di questa montagna.

Mounira Al Solh.

L’opera Dancing with its mito di Mounira al-Solh occuperà l’intera superficie del Padiglione libanese. La sua struttura, conservata allo stato originario, composta da arcate in mattoni dalla trama unica modellata dal tempo e da una grande cornice in legno, ricorda le antiche rovine di Tiro (città fenicia), teatro del rapimento di Europa. La principessa fenicia, rapita da Zeus trasformatosi in un possente toro bianco che la condurrà fino all’isola di Creta. Il suo nome viaggerà dal Libano alla Grecia, poi lungo i Balcani e ancora più a Ovest, attraverso terre ricche di storia, città intrise di tradizioni e popoli distinti, uniti nella diversità, che daranno vita al ricco mosaico chiamato Europa. Questo mito, che ha alimentato l’ispirazione di tanti grandi artisti come Tiziano, Veronese o Rembrandt per citarne alcuni, è la spina dorsale del lavoro di Mounira al-Solh che ne fa uno spazio di dialogo e riflessione.

Il layout di questa installazione ruota attorno alla barca, fulcro dell’opera, che trasporta la famiglia di Europa partita alla sua ricerca dopo il rapimento da parte di Zeus. Il volto, tanto inquietante quanto comico, del guardiano della Porta, e la prua della barca, entrambi scolpiti dall’artista e visibili attraverso feritoie, accolgono il pubblico. Una serie di imponenti tele racconta il viaggio della principessa fenicia rivisitato dall’artista.

Mounira Al Solh, I strongly believe in our right to be frivolous, 2018, Art Institute of Chicago.

L’installazione è molto legata al Mediterraneo, sia attraverso riferimenti alla storia, sia attraverso immagini o colori, in particolare ad elementi dell’epoca fenicia. I riferimenti a questo popolo sono integrati nell’installazione sia visivamente che nei materiali utilizzati per creare l’opera, siano essi carbone o papiro.

Danzare con il suo mito è sulla stessa linea delle opere precedenti di Mounira al-Solh che attingono ai miti originari delle coste libanesi, così come alla lingua e alla scrittura dei Fenici. Le sue opere riflettono il rapporto delle diverse comunità libanesi con le proprie città e con il mondo che le circonda, lo sguardo di un popolo oltre il proprio orizzonte e la loro eterna storia di esilio e ritorno, nonché l’identità tra Oriente e Occidente.

Mounira Al-Solh, Sama’/Ma’as (توت-توت),35ª Bienal de São Paulo © Levi Fanan / Fundação Bienal de São Paulo.

Con Dancing with its mito, l’artista cerca di dare senso a questo mondo scosso da tanti conflitti e disastri ecologici. Ed è proprio sui concetti di dominio, sottomissione ed eccesso che circolano nel mito di Europa che l’installazione di Mounira al-Solh attinge in forme inaspettate, ma giocose, con l’obiettivo di ribaltare il rapporto di forza tra dominante e dominato.

È un’Europa liberata e determinata a tendere verso un equilibrio con il sesso opposto quella che ritrae, in questo mito con cui si prende alcune libertà. L’artista ricorre alla decostruzione degli stereotipi di genere cambiando il sesso del cane di Ercole che scoprì il murex (o murice, un mollusco da cui viene tratta la porpora, ndr), e lo trasforma in una cagnolina incinta di un cucciolo viola. E inoltre fa un cenno alla sua patria ponendo tra i piedi dell’Europa una bandiera al centro della quale si trova un cuore che fluttua sopra il cedro del Libano.

Le opere di Mounira Al Solh, anche a causa del suo trasferimento da Beirut ad Amsterdam durante le guerre civili libanesi, spesso affrontano questioni di spostamenti forzati, insieme a temi riguardanti la condizione femminile. L’artista, nata nel 1978, si muove liberamente tra pittura, performance, tessuti, video e installazioni.

Gülsün Karamustafa.

Hollow and Broken: A State of the World, di Gülsün Karamustafa, nata ad Ankara nel ’46, è l’opera che rappresenterà la Turchia alla sessantesima Biennale Internazionale di Venezia, curata da Esra Sarıgedik Öktem. L’installazione di Karamustafa comprenderà un’interconnessione di opere scultoree realizzate con materiali trovati, invitando gli spettatori a riflettere sullo stato attuale del mondo, simile al sentimento tragico di una realtà tumultuosa e di problemi che minacciano l’umanità. In un elemento dell’installazione, l’artista allude ai perpetui conflitti tra le fedi che, nel corso della storia, non hanno mai smesso di combattersi.

“Ciò di cui mi occupo” dice Karamustafa di quest’opera, “è lo stato di un mondo scavato fino al midollo da guerre, terremoti, migrazioni e pericolo nucleare che si scatenano ad ogni passo, minacciando l’umanità mentre la natura è incessantemente ferita e l’ambiente devastato, malato. Cerco di evocare fisicamente ed emotivamente questo fenomeno: il vuoto, la vacuità, la rottura prodotta dalla devastazione divenuta banale, il cui ritmo diventa sempre più impossibile, da valori vuoti, lotte di identità e relazioni umane fragili”.

Gülsün Karamustafa, Prison Painting 6, 1972, tecnica mista su carta, Courtesy Hamburger Bahnhof—Museum für Gegenwart.

Per l’artista lo spazio gioca un ruolo centrale nella mostra, sostenendo metodi non convenzionali e materiali disparati, ritraendo il mondo, come un campo di battaglia, come un terreno in continuo cambiamento. 

Un libro accompagnerà la mostra e includerà saggi scritti da 12 autori su ciascuno dei materiali utilizzati nel nuovo lavoro di Gülsün Karamustafa e un’intervista con l’artista.

Eddie Martinez (Foto Jason Schmidt).

Sulla nozione di “Homo Migrans” si baserà il lavoro di Eddie Martinez che rappresenterà la Repubblica di San Marino.

Una visione che non ha né terra né nome, e che mescola frammenti di immagini e pensieri. Una visione che non ha né terra né nome, e che mescola frammenti di immagini e pensieri. L’artista americano con il progetto Nomader, a cura di Alison M. Gingeras, concepito appositamente per gli spazi de La Fucina del Futuro da FR Istituto d’Arte Contemporanea S.p.a., intende dare agli spettatori pieno accesso al processo creativo: nella prima sala, su un tavolo trapezoidale, vi saranno disegni e sculture bronzee assemblate da materiali di scarto (trovati sulla spiaggia di Long Island); intorno al tavolo, e nella seconda sala, ci sono poi una selezione di dipinti realizzati appositamente per il Padiglione.

Eddie Martinez Studio Wall Redux, 2023. Timothy Taylor, Stand A14 / Booth A14, Frieze London (Foto Sebastiano Pellion di Persano).

L’artista è stato segnato da un’infanzia itinerante, da cui il nome del progetto, e si è mosso con la famiglia da una regione all’altra degli Stati Uniti per diversi anni. Ecco che i paesaggi Coast-to-Coast visti in giovinezza compaiono a sprazzi nella sua iconografia, che raccoglie e trasfigura brani di culture diverse, il fil rouge è comunque il disegno.

Eddie Martinez, Borderlord, 2024. Olio, acrilico e pittura spray su lino, 152,4 x 182,9 cm. Foto JSP Art Photography. Courtesy the Artist. © Eddie Martinez.

Così abbraccia la nozione di “Homo Migrans”, essere umani significa migrare, spostarsi fisicamente, cambiare mentalmente e attraversare culture e identità, e così fa l’universo di Martinez, commenta Gingeras nel testo curatoriale. “L’artista ha permesso al suo lavoro di migrare formalmente e concettualmente dall’eredità del disegno automatico e dell’astrazione praticata dal gruppo CoBrA alla sua peculiare interpretazione della figurazione fumettistica post-Philip Guston, nonché alla sua insolita rivisitazione di vari generi classici dell’arte come le nature morte e la ritrattistica“.

Così l’arte, ancora una volta, dimostra di saper dare voce alla sua epoca. Perché ha la capacità di raccontare, attraverso prospettive diverse, l’esodo interiore ed esteriore degli esseri umani, la fuga di milioni di persone, uomini, donne, bambini, anziani in cerca di un futuro migliore e di una pace risanatrice.

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