Apartheid Femminile, in un libro-denuncia le violenze e le discriminazioni di genere nei paesi islamici

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“Apartheid Femminile”, è un libro che racconta le tante storie di donne incontrate nel corso degli anni da Taher Djafarizad, nato in Iran, ma da tempo cittadino italiano. Attivista dei diritti umani, Taher, da anni dedica la sua vita alla difesa dei diritti delle donne. Non si limita solo alle donne dell’Iran, suo Paese di origine, ma estende il suo impegno a tutte le vittime di maltrattamenti, con particolare attenzione alle donne che vivono nei Paesi dove vige la legge islamica della Sharia. L’imposizione indiscriminata di simboli religiosi non è mai una cosa desiderabile. Ma quando a farne le spese sono bambine e bambini diventa ancora più odiosa e si dovrebbe intervenire per limitarla o vietarla.

Ne è un esempio il fenomeno delle spose bambine. L’età legale del matrimonio per le ragazze è 13 anni, ma se padre o nonno paterno sono d’accordo, possono sposarsi anche molto prima. In Iran, l’età matrimoniale per le donne è stata portata a 13 anni da poco tempo e dopo tante lotte da parte degli attivisti, che finalmente sono riusciti a far approvare, nel 2017, una risoluzione a livello europeo per l’eliminazione del matrimonio infantile. Il fenomeno è agghiacciante, se pensiamo che più di trentamila bambine vengono portate fuori dall’Europa e vendute ogni anno. Prima, era 9 anni, così è rimasta in tanti Paesi islamici; un esempio è l’Arabia Saudita (uno Stato amico dell’Occidente).

I numeri sono impressionanti. Ogni anno nel mondo, più di 14 milioni di bambine vengono date in sposa e 70mila perdono la vita partorendo.

Le donne/bambine costrette a matrimoni forzati spesso tentano il suicidio, in Iran il suicidio, addirittura, è la seconda causa di morte femminile. Mentre nel resto del mondo si osserva un rapporto di tre suicidi maschili su uno femminile, in Iran è esattamente il contrario. Decine di donne tormentate, vengono ricoverate per aver tentato il suicidio, ma tutto questo viene insabbiato dal regime.

Un’altra pratica barbara e brutale applicata in molti Paesi dove vige la Sharia è la lapidazione. In Iran è stata abolita, grazie alla lotta degli attivisti di tutto il mondo e soprattutto per la storia di Sakineh Ashtiani, ci racconta Taher Diafarazid, che era stata accusata di adulterio e di aver partecipato all’uccisione del marito, ed era stata condannata alla lapidazione. Anche nella pratica della lapidazione c’è una differenza tra uomo e donna: l’uomo viene seppellito sino alla vita, la donna sino al petto. Siccome le vittime hanno la possibilità di salvarsi, anche in questo l’uomo è avvantaggiato, perché spesso non muore, mentre le donne non hanno scampo. Nel 2014, dopo anni di lotte e sofferenze, Sakineh è stata rilasciata e quella pratica barbara che è la lapidazione abolita. Purtroppo, la lapidazione continua ad essere praticata in molti altri Paesi islamici, quali l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, il Pakistan, l’Afghanistan e lo Yemen.

Woman-village-Aswan-Egypt

“Paesi dove alle donne viene anche imposto di portare il velo, ci racconta ancora Taher, con l’obiettivo di creare un muro fisico di isolamento. Alle bambine viene detto che devono portare il velo per non attirare l’attenzione degli uomini. Il velo fa parte dell’idea misogina che le ragazze sono “diverse” dai ragazzi, le ragazze velate non devono correre, urlare o ridere troppo forte o addirittura andare in bici o giocare con i ragazzi. La disuguaglianza tra ragazze e ragazzi viene incoraggiata da questi continui divieti e naturalmente una volta portato il velo per anni, psicologicamente diventa quasi impossibile toglierlo”.

Il messaggio che ne risulta è chiaro: le donne valgono meno degli uomini, devono essere sottomesse e se si mostrano troppo la colpa di ogni possibile abuso deve ricadere su di loro. Questo è quello che viene insegnato alle ragazze fin dalla più tenera età ed è il messaggio implicito nell’usanza dell’hijab (dal semplice velo alla copertura integrale del burqa).

Lo stesso messaggio che appare ancora oggi, nel cosiddetto mondo civilizzato, fra le righe dei quotidiani e nelle pieghe dei social network, purtroppo è ancora centrale un tema sociale e culturale antico come il mondo: il victim blaming, la colpevolizzazione della vittima. La donna come responsabile della violenza subita.

Women’s freedom, Egypt. foto Silvia Dogliani.

Dalla magistratura all’uomo della strada domina una visione sessista, manipolatoria e discriminatoria, capace, anche nei casi più gravi, di portare rapidamente l’opinione pubblica a vedere in una donna vittima di reato, la causa o, peggio, l’autore del reato stesso. Una colpevolezza aprioristica verso il femminile e un “occhio salvifico” verso il maschile dominano ancora il pensiero comune.

“Molte battaglie sono state fatte ma ancora molte sono da portare avanti, ancora purtroppo si colpevolizza la donna per essersela andata a cercare, di portare i jeans, di essere ubriaca, come se tale condizione desse il diritto a qualcuno di prendersi delle libertà mai concesse”, puntualizza ancora Taher Djafarizad. “L’importante è non arrendersi, continuare a parlare e a denunciare quello che succede alle donne non solo nei paesi dove vige la Sharia, ma anche nel nostro giardino”.

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