Novecento a Parma: in mostra l’Archivio Amoretti

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L’Archivio Amoretti. Il volto di Parma dal 1922 al 1997 curata da Cristina Casero e Andrea Tinterri, restituisce tramite il recupero dell’archivio Amoretti – donato al Comune di Parma – il volto plurimo e cangiante della città, teatro di eventi storici e culturali eterogenei che hanno avuto luogo tra le arterie urbanistiche del centro storico e dei vari quartieri cittadini. Inaugurata il 9 settembre, la mostra rivela le immagini schiette di tre generazioni di fotografi –  Armando, Mario e Giovanni – che utilizzano la fotografia come testimonianza esperienziale dello scorrere del tempo. L’esposizione, visitabile fino al 5 novembre, è ambientata al Palazzo Pigorini, edificio nobiliare sito in Strada della Repubblica.

Archivio Amoretti, Alfredo Zerbini, 1946

La storia generazionale degli Amoretti inizia con Armando, che a soli tredici anni, nel primo decennio del Novecento, inizia un apprendistato nello studio del fotografo Ettore Pesci, per poi essere chiamato alle armi nel ’16. Tornato in Italia dopo quattro anni, lavora nello studio di Marcello Pisseri e successivamente presso il fotografo Luigi Vaghi. Come sostengono i curatori, è proprio mentre lavora con Vaghi che Armando Amoretti realizza 24 immagini che ritraggono i giorni delle Barricate dell’agosto 1922 «probabilmente le fotografie più iconiche dell’intero Archivio Amoretti». Nel ’38 inizia quel viaggio individuale della famiglia Amoretti segnato dall’apertura di uno studio fotografico in proprio, in cui lavorerà il figlio Mario, svolgendo un’intensa attività di testimonianza degli eventi storici e delle trasformazioni urbanistiche del volto della città. La storia Amoretti si arricchisce poi con l’ingresso in organico del secondogenito Giovanni nel 1951.

Archivio Amoretti, Parma – Inter, 1961

L’esposizione si apre con una prima sala che risulta un vero e proprio spazio dei ricordi. L’Archivio Amoretti oltre che la storia di Parma, racconta la storia di una famiglia. Affisse, colte in un momento, sono le fotografie di attimi di distratta felicità domestica, quotidiana: il piccolo Mario, nel 1925 è in posa su una sedia di legno con un cappello da adulto, Mario Amoretti e la madre Olinda Ferraroni, 1928; Mario e Giovanni Amoretti, 1940; Giovanni Amoretti mentre legge “Progresso Fotografico”, 1941. Lo spazio della memoria cede il passo alla documentazione storica: l’invasione fascista, determinata a sedare i rivoltosi, si abbatte su Parma. Armando Amoretti, appena venticinquenne, impugna una Mentor e immortala la città assediata da barricate e sbarramenti da barriera Bixio, a Borgo Carra, da piazzale Inzani a borgo delle Grazie. La potenza della fotografia atemporale di Amoretti è duplice, da un lato mira a ritrarre eventi storici inequivocabili, dall’altro come scrivono i curatori, le sue fotografie «possiedono una forza espressiva che va al di là degli eventi ritratti: esse evocano lo spirito di ribellione dei miserabili, la resistenza di un popolo nella difesa dei propri diritti, l’orgoglio di Davide nel combattere contro il gigante Golia».

Il volto della città nel secolo breve viene indagato in un percorso espositivo che va da Le Barricate di Parma del 1922 fino all’inaugurazione del monumento a loro dedicato nel 1997. Passando per la fondazione dello studio nel 1938, in cui Amoretti affiancò ai ritratti per documenti e occasioni di famiglia, fotografie di celebrazioni pubbliche che potevano essere acquistate da coloro che volevano conservarne il ricordo. Le foto delle adunate, qui presenti, mostrano la necessità di Amoretti di adeguarsi alla tendenza del tempo, pur non simpatizzando con il regime fascista. Come scrivono Casero e Tinterri: «durante quelle manifestazioni, però Amoretti fece anche altri scatti, che si distinsero non poco da quelli convenzionali. Ad attirare la sua attenzione, infatti sembravano essere gli anonimi partecipanti alle adunate e celebrazioni, i loro sguardi, le loro pose, talvolta i loro sorrisi. In quella dimensione collettiva e anonima, quindi, Amoretti faceva emergere i caratteri di ciascuno in ritratti singoli o di gruppo».

Dopo l’invasione fascista, la guerra lacerante e l’occupazione nazista, la Liberazione sancisce un nuovo momento di rinascita che spinge il popolo parmense a scendere nelle piazze e nelle strade in nome della democrazia. Sono sempre volti di uomini e donne uniti in cortei ad attirare l’attenzione dell’obiettivo fotografico di Amoretti che restituisce, questa volta con inquadrature meno severe, il popolo che si stringe in un unico grido di libertà. La fotografia storica degli Amoretti ritrae poi Parma durante gli anni della guerra fredda, almeno così ci raccontano gli scatti del comizio di Togliatti del 10 aprile del 1948, tenuto in piazza Garibaldi. Il novecento, insomma è scandito dalla fotografia degli Amoretti, che giunge a immortalare anche a colori la visita pastorale di Giovanni Paolo II del 1988.

Ma, nel 1967 scompare prematuramente Mario e solo due anni più tardi anche Armando abbandona la vita. L’attività dello studio è continuata dal figlio Giovanni che grazie all’aiuto della nipote Bianca Amoretti amplia e arricchisce le proprie collaborazioni. Sono questi gli anni in cui lo studio collabora con straordinari esponenti della cultura italiana, tra cui: Arturo Carlo Quintavalle, Franco Maria Ricci, Igino Consigli e Patrizia Lodi.

Lo studio fotografico chiude i battenti nei primi anni Duemila, probabilmente con l’avvento della novità del digitale, nonostante ciò Giovanni, per amore della fotografia come pratica vitale, continuerà a scattare fino alla sua morte, avvenuta nel 2022.

Archivio Amoretti, Gino Bartali al Giro d’Italia, 1948

Un elemento che appare determinante dell’estetica amorettiana è l’assoluta interscambiabilità autoriale, l’impossibilità di determinare la paternità delle fotografie – tra Armando, Mario e Giovanni – il che segna il carattere imprescindibile della loro pratica: il trascendere l’autorialità, il rinunciare alla proprietà per una finalità superiore, ovvero una fotografia che risulti un lavoro comune, atto a soddisfare “l’esigenza iconografica” della città.

Casero e Tinterri individuano, infine, un leitmotiv determinante del percorso espositivo nel ritratto fotografico, su cui si focalizza l’ultima sala della mostra. Ritratti di volti noti tra cui l’imprenditore Pietro Barilla, la cantante Renata Tebaldi, gli artisti Fausto Melotti e Mario Cerioli, dialogano con la ritrattistica di persone comuni che posano in studio tra cui: il Cresimante e Ritratto in sala di posa. Risulta evidente la creazione, dunque, di un inestricabile dialogo tra la dimensione familiare intimistica e quella professionale documentarista, tra cioè una fotografia di posa, riflessiva, meditata, volta a cogliere l’aria teorizzata da Roland Barthes, e la cattura dell’immediatezza; ovvero l’arresto di quel formicolio esistenziale della gente, che pur restituita in masse indistinte, per Amoretti, conserva una sua preziosa individualità.

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