Nicolas de Staël, al Museo d’Arte Moderna di Parigi la summa di una vita al limite. Tra passione e tragedia

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Forse i due centimetri di tela dipinta che mancano al Nu debout per essere tutta intera contenuta in un qualsiasi quadro di Cezanne, per parafrasare la più ostile critica che Nicolas de Staël ricevette nella sua breve vita, comminata da Roland Barthes, sono semplicemente la somma dei minuscoli spazi bianchi, non raggiunti dal pennello dell’artista nel più celebrato dei suoi ritratti, quello realizzato in Provenza nel 1953. La modella era Jeanne Mathieu, moglie dell’amico fraterno René Char a cui il pittore chiese senza perifrasi di donargliela: “l’amo troppo”, gli disse, candidamente. E l’amico, nel buono stile del matelotage piratesco (l’omosessualità mediata da una donna in comune), gliela donò. De Staël ebbe Jeanne, per il resto breve della vita che si concesse, e a parte quei due centimetri, ad onta di Roland Barthes, il dipinto è ferocemente perfetto. E vale oggi svariati milioni.

A partire dal 15 settembre scorso e fino al 21 gennaio 2024, Parigi torna a tributare il maestro russo, naturalizzato francese, con una maestosa retrospettiva al Museo d’Arte Moderna. In mostra oltre duecento opere, fra tele e carte, che rendono merito all’intera produzione, non di poco impegno, di Nicolas de Staël e della sua corta ma appassionatissima e disperata esistenza. Nacque a Pietrogrado nel 1916 e morì suicida ad Antibes, gettandosi dalla finestra di casa sua, in una notte di marzo del 1955, ma solo dopo che ebbe computato e offerto al mondo il risultato, in tutti i suoi addendi, della summa dell’arte sua, proprio negli ultimi anni di vita, quelli che furono accompagnati dall’amore viscerale e sviscerato per Jeanne.

La donna del personale mito sentimentale del pittore finisce con l’essere musa, nel senso proprio dell’espressione, mitografica e artistica. La Sicilia diviene la casa naturale degli sposi adamitici, durante un lungo, tardivo Grand Tour nella terra dei limoni.

Quel nudo è davvero la teoria e la prassi stilistica dell’artista, ne rappresenta l’inesausta ricerca del colore nelle campiture geometriche e l’astrattezza sregolata che si fissa in una ossessione di possesso della materia incarnata nello spirito.

De Staël, tra il 1953 e il ’55 dipinge forsennatamente, spalmando grandi spatolate di colore acceso che va infiammandosi di luce pura, complice il lungo soggiorno siciliano, che certamente lo abbagliò. “Sono divenuto, anima e corpo, un fantasma che dipinge templi greci e un nudo così adorabilmente ossessivo, senza modello, che si ripete e finisce con l’annebbiarsi di lacrime”, scrive all’amico devoto e generoso Char, riferendogli di sensazioni intime scabrose e pietose allo stesso modo, che riguardano la “loro” donna. “Non è davvero atroce – precisa –, ma spesso si raggiunge il limite. Quando penso alla Sicilia, che è essa stessa un paese di veri fantasmi, dove solo i conquistatori hanno lasciato delle tracce, mi dico che sono racchiuso in un cerchio di stranezze dal quale non si esce mai”, ammette con una nonchalance che ha qualcosa di perversamente innocente.

Sta di fatto che quel nudo, immagine eternamente impressa, nato all’origine davvero già come “paesaggio”, ovvero come contemplazione astratta dell’oggetto d’amore, ecco che esso stesso diviene paesaggio in senso fisico, panoramico, geografico, fondendosi nell’intero cosmo Creato, ovvero in tutto ciò che il pittore vede fino a dove riesce a gettare il proprio campo visivo, nell’enormità della luce e del colore della terra, del mare e del cielo.

Exhibition view

In un’altra lettera, scritta al proprio gallerista, Jacques Dubourg, de Staël, forse in replica indiretta a Barthes, si perita in un timido, e ancora una volta noncalente, giudizio critico, su sé stesso e su tutta l’arte, probabilmente: “un bon tableau est celui dont on peut dire qu’on ne sait pas où il va ni d’où il vient”. Tutto qui: l’opera è buona semplicemente quando non si può dire da dove viene né dove va.

Se gli ultimi anni di vita, trattenuta dall’artista prima di suicidarsi, furono anni di crescendo creativo, di epifania totale dell’arte, in quella riga critica de Staël esprime la sintesi di se stesso: un artista venuto da chissà dove (la seppellita Russia degli zar), che si lancerà nel vuoto senza sapere dove sarebbe andato.

Forse aveva ragione Roland Barthes a liquidare de Staël come un artista che era contenuto in due centimetri quadrati di Cézanne, ma forse non sapeva, il filosofo, che in quei due centimetri quadrati è compressa la potenza di una stella dell’arte che implode.

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