L’arte è femmina: 5 opere d’arte per l’emancipazione femminile

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Riscopriamo insieme 4 opere diventate icone di un intero movimento.

In Brasile l’opera “Diva”, dell’artista Juliana Notari, ha fatto infuriare l’ala destra del governo guidata dal presidente Bolsonaro. L’istallazione, una vulva rosso intenso lunga 33 metri (che vedete nel post di Instagram riportato qui sotto) ha dato vita ad un intenso dibattito politico e sociale; ma non è certo la prima volta che l’arte viene usata come mezzo per ribadire l’importanza dell’emancipazione femminile. Riscopriamo insieme altre 4 opere diventate vere e proprie icone di un intero movimento.

 

 

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Tamara de Lempika, Autoritratto in Bugatti verde

Uno sguardo capace di catturare lo spirito del tempo; queste parole basterebbero già a descrivere l’opera dell’artista polacca Tamara de Lempika. Osservando la tela vediamo la figura principale prendersi con forza lo spazio concessole: una donna elegante, annoiata, ma soprattutto indipendente, al volante di un’automobile (simbolo di modernità già a partire dal futurismo). Siamo negli anni ruggenti, nell’epoca del jazz e della moda alla maschietta. L’Art Nouveau lascia spazio ai preziosismi dell’Art Decò, della quale Tamara è piena sostenitrice. Le sue opere dai toni brillanti e dai volumi solidi sgretolano l’idea di naturalismo per diventare decorative. Ed è proprio questo stile che la consolida come artista della borghesia di quegli anni. Ma dietro questo autoritratto c’è di più, una storia che si intreccia al mondo del costume e della moda. Esso, infatti, è stato commissionato nel 1929 come copertina della rivista tedesca Die Dame. La Lempika, ritraendosi, decide allora di proclamarsi come Venere moderna, portavoce di un’emancipazione sempre più concreta

Barbara Kruger, Untitled (Your body is a battleground), 1898

Il volto di Donald Trump, in bianco e nero, sovrastato da un imponente banner rosso che riporta la scritta: “Loser”. Tutti noi abbiamo visto questa copertina del New York Times del 2016, ma forse non sappiamo chi vi sia dietro. Lei è Barbara Kruger, artista newyorkese classe 1945, diventata negli anni 90 icona dei diritti delle donne. Per capire come, però, torniamo indietro al 1989, Washington. L’intera America sfila sotto il volto di una donna, metà reale metà polarizzato, che ribadisce: “Your body / is a / battleground”. È questa l’opera firmata Kruger che forse rimarrà più iconica negli anni, realizzata per la marcia delle donne nella capitale contro la legge antiaborto. Il suo stile prevede sempre una giustapposizione tra uno slogan e un’immagine “readymade” trovata su magazine e riviste. Ciò viene a creare un cortocircuito concettuale e del tutto contemporaneo che la Krugen ha sempre utilizzato in favore del movimento femminista e de la lotta al diritto. “L’uso convincente e predettivo degli aforismi ha cancellato il confine tra slogan politici, poesia e linguaggio pubblicitario, offrendo uno specchio scuro della nostra epoca guidata dai meme”: è così che il New York Times descrive lo stile utilizzato dall’artista, eleggendola tra i 5 personaggi più influenti del 2020.

 

 

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Guerrilla Girls, Do Women Have to Be Naked to Get into the Met. Museum?

Guerrilla Girls è un gruppo di artiste fondato a New Tork nel 1985 che da sempre si è battuto per la parità di genere, la lotta al sessismo e al razzismo attraverso performance e manifesti. Cosa le caratterizza? Il collettivo utilizza delle maschere di gorilla per rimanere nell’anonimato e i membri utilizzano nomi di artiste decedute come pseudonimo. Il poster “Do Women Have to Be Naked to Get into the Met. Museum?” (parte dei trenta poster della serie Guerrilla Girls Talk Back) utilizza un design grafico e uno sloga accattivante, riprendendo le tecniche di marketing pubblicitario e invertendole a favore della loro causa. L’immagine riprende il famoso dipinto di Jean-Auguste-Dominique Ingres intitolato La Grande Odalisque e riporta i fatti: “meno del 5% degli artisti nell’Arte Moderna sono donne, ma l’85% dei nudi sono donne”. Il poster è stato originariamente progettato per essere un cartellone commissionato dal Public Art Fund di New York, ma è stato respinto perché non abbastanza chiaro. Le Guerrilla Girls hanno allora pagato una compagnia pubblicitaria per metterlo sul lato degli autobus di New York City ed assicurarsi che sarebbe stato visto.

 

 

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Nan Goldin, Un mese dopo essere stata picchiata

Meno sfacciatamente femminista, ma profondamente intimista e perturbante, è la fotografia di Nan Goldin. Lo scatto fa parte dell’opera The Ballade of Sexual dependency, un diario visivo capace di dare vita ad un nuovo filone di fotografia chiamato Snapshot Style. La presa diretta, lo stile anti-formale, l’assenza di una composizione predefinita dell’immagine e la totale partecipazione dell’autore allo scatto definiscono la poetica della Goldin. In questo particolare scatto vediamo il volto dell’artista deturpato e sconvolto. Nan decide di mettersi in scena proprio dopo aver subito violenza da parte del compagno Brian, facendo luce su una tematica tanto difficile quanto bisognosa di essere affrontata. Il suo volto, allora, diventa portavoce di un intero movimento. È la stessa Nan Goldin a spiegare nella prefazione dell’opera: “Ho sempre temuto che le donne e gli uomini fossero irrevocabilmente stranieri l’un l’altro, inconciliabili tra loro, come se venissero da pianeti diversi. L’amore può essere una dipendenza. Ho capito di aver realizzato questa foto così non sarei tornata dall’uomo che mi aveva picchiata.”

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