Landing, gli skater palestinesi per raccontare l’altra faccia della violenza

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“Quest’oggi avremmo dovuto inaugurare al Museo Novecento la mostra Landing, ispirata al progetto fotografico dell’artista palestinese Mann Hammad e organizzata in concomitanza con il festival Middle East Now. Rispetto a mesi fa, quando abbiamo accolto la proposta, le condizioni culturali e politiche intorno a noi sono tragicamente cambiate. Allora avevo trovato di interesse artistico e pure politico il progetto dedicato agli skaters, poetica dimostrazione di quanto desiderio di libertà ci fosse nella popolazione giovanile palestinese e come questa fosse cercata non con le armi, ma con lo sport e con la forza dell’arte. Da sabato però – dopo l’assalto contro civili israeliani – tutte le precedenti considerazioni sono saltate. Quello che abbiamo visto e ascoltato ci ha lasciati sgomenti, atterriti, increduli”. Comincia così la dichiarazione rilasciata a “Repubblica” da Sergio Risaliti, direttore del Museo del Novecento di Firenze, annunciando che sì, la mostra annunciata si farà, ma senza inaugurazione. E, va detto, troviamo che la scelta non potrebbe essere più saggia e più equilibrata. Nessuna censura per una mostra che racconta la vita quotidiana dei giovani palestinesi sotto l’occupazione israeliana, ma da un punto di vista di libertà, di momenti di leggerezza, di amicizia, di spensieratezza e di intimità, e non sotto la lente focale del vittimismo o del senso di odio o di vendetta.

L’autore è un giovane fotografo e regista palestinese-americano, emigrato con la famiglia negli Stati Uniti quando aveva 2 anni, dove vive tutt’ora, ma tornato in Palestina nel 2014 per riallacciare i rapporti con la sua terra natia e la sua gente, dove è rimasto per 7 anni. Fotografo e regista, è però anche e innanzitutto, tiene a specificare, attivista per i diritti umani con un master in diritto internazionale. Il suo lavoro, sempre in bilico tra racconto del quotidiano e grande senso della composizione e dello spazio, è stato pubblicato su riviste prestigiose come il “New Yorker”, “Time” e “i-D Magazine”, ma anche da organizzazioni come Amnesty International, l’American Academy of Arts and Sciences, Magnum Foundation oltre che essere nella collezione permanente del Museum of Fine Arts di Houston.

Il progetto presentato ora a Firenze, “Landing”, è, come racconta lo stesso fotografo nel suo sito, “uno sguardo collettivo alla fuga mirata che lo skateboarding offre a una manciata di skater palestinesi, me compreso. Questa fuga mirata è una forma radicale di resistenza a uno spazio di violenza, situato negli strati della dominazione israeliana in Palestina. Intessuti ovunque ci sono i racconti dell’esperienza di sfollamento, diaspora e ritorno parziale della mia famiglia. Quando sono tornato in Palestina nel 2014, dopo aver vissuto negli Stati Uniti per diciannove anni, ho portato il mio skateboard perché sapevo che sarei stato un estraneo. Avevo bisogno del bambino che è in me per ricordare a me stesso che va tutto bene mentre cercavo di trovare casa”. Uno sguardo libero e a tratti quasi spensierato e giocoso, che non distoglie però gli occhi e la mente dalla tragedia che si compie da anni in quelle terre, che ha portato all’orrendo epilogo a cui stiamo assistendo in queste ore, con gli orrendi massacri di innocenti civili israeliani, di giovani, di donne e bambini, le prese di ostaggi e le deportazioni a Gaza da parte di Hamas, e con l’oscena rappresaglia indiscriminata sulla popolazione indifesa di Gaza oggi da parte dell’esercito israeliano.

“Quali tempi sono questi, quando discorrere d’alberi è quasi un delitto, perché su troppe stragi comporta silenzio”, scriveva Bertolt Brecht nel 1939, sottintendendo che, in tempi di stragi e di guerre, è quasi impossibile, per l’arte e la letteratura, voltarsi dall’altra parte e parlare di cose futili, o semplicemente “belle”, come sono appunto gli alberi e la natura tutta: e sembrerebbero tragicamente attuali, questi versi, se non fosse che uno sguardo sulla realtà dei giovani e a tratti spensierati skaters palestinesi non è dopotutto “parlar d’alberi”, ma scavare e indagare a fondo su una gioventù, quella palestinese, tragicamente sospesa in un limbo dove mancano i diritti e le necessità più elementari, che tuttavia riesce a vivere a tratti in maniera gioiosa, immaginifica, spensierata: “gran parte di questo lavoro”, spiega infatti Mann Hammad, “mira a evidenziare che anche i giovani palestinesi sono semplicemente giovani. E i giovani hanno vite e storie che spesso non faranno mai notizia. La trama dentro e attorno ai ragazzi in Palestina è spesso inondata da molti miti e immagini che penso non siano rappresentativi della reale vita quotidiana che vivono i giovani”.

Ecco allora momenti di puro divertimento, di libertà, di coraggio, di intimità, di amicizia, di svago, di amore. Foto che raccontano momenti di “normale” gioia di vivere di ragazzi che, per i casi della storia, sono nati in un luogo che sembra non poter trovare più pace e serenità (e non possono non venire in mente, vendendo quei momenti di spensieratezza che oggi sono purtroppo fatalmente spezzati dal fuoco dell’esercito israeliano, le immagini altrettanto gioiose e spensierate dei giovani israeliani intenti a ballare nel rave spezzato dal fuoco degli assassini di Hamas nel tragico raid di pochi giorni fa nel deserto poco fuori la striscia di Gaza). Foto, quelle di Hammad, accompagnate da semplici e asciutte didascalie: “Ho incontrato Aram e Adham nel 2015, quando avevano 16 anni. Sono stati i primi skater in Palestina e rimangono i guardiani della piccola ma intima scena skate”; oppure: “La ricostruzione da parte degli skaters di un checkpoint israeliano” (la foto mostra tre giovani che, anziché imbracciare i mitra, imbracciano i propri skate, ndr); o ancora: “Zaina (l’unica ragazza skater che compare nelle foto, ndr) è una matricola all’università. Ha iniziato a pattinare due anni fa. “Mi fa sentire bene”, dice”. E così via. Ma anche dei pensieri più articolati e intimisti, come questo, a corredo di una foto che ritrae lo stesso fotografo mentre, di spalle, è intento a togliersi del liquido viscoso bianco dal corpo: “Crescendo, la Palestina era un’idea, non un luogo. E la diaspora è stata il collante che ci ha formato. Per quanto mi riguarda, vedo come questo collante mi abbia appesantito persino dal conoscere me stesso e mi abbia tenuto bloccato in una situazione di stallo suburbano. È stato solo quando sono tornato in Palestina che ho potuto provare a liberarmi degli strati che mi appesantivano. Mi sorprendo ancora a cercare di lavare via un po’ di quella colla”.

Ma com’è nato il progetto Landing? “Sono stato uno skater per gran parte della mia vita”, ha raccontato il fotografo in un’intervista alla rivista “i-D Magazine”: “ho iniziato a pattinare quando avevo circa nove anni. La maggior parte della mia giovinezza è trascorsa nei sobborghi americani e nei dintorni. Nel 2014, dopo tanto tempo lontano e in diaspora, ho deciso di tornare in Palestina per seguire un corso di arabo. Come farebbe qualsiasi skater, ho portato il mio skateboard con me e mi sono imbattuto in un gruppo di giovani skater palestinesi. Da lì ho cominciato a prendere in mano una macchina fotografica e documentare questa scena, solo perché mi piaceva farlo”.

Ma ecco che, a un tratto, quel lavoro del tutto privato, iniziato quasi per caso, diviene un progetto più articolato e complesso: “Nel 2020 ho avuto un mentore e un amico davvero eccezionale che mi ha spinto a fare qualcosa con questo lavoro. Quindi ho cambiato marcia per renderlo un progetto foto-documentario collettivo con una manciata di skater di cui ero amico da un po’. Essendo cresciuto negli Stati Uniti, e pur avendo trascorso circa sette anni in Palestina, sentivo ancora che fosse una prospettiva narrativa davvero imbarazzante parlare a nome dello skating palestinese. Quindi volevo davvero collaborare con gli skater per dare loro libertà d’azione: non volevo semplicemente ficcargli una telecamera in faccia e dire: questo ti rappresenta. Un’altra parte della collaborazione sono state interviste, conversazioni e brani di diario su come e dove queste foto possono raccontare la loro storia”. Storie che sono spesso di violenza, di povertà e di privazioni di diritti, ma che per una volta raccontano il rapporto con lo spazio, con la cronaca e anche con la violenza partendo da un altro punto di vista: “In Palestina”, dice ancora Hammad, “Lo skating su strada è intrinsecamente uno sforzo radicale. Perché lo spazio e il territorio in Palestina sono sempre trincerati da violazioni dei diritti, che si tratti di furti di terre o raid notturni o, nel caso di Gaza, attacchi aerei… nel caso della Cisgiordania, checkpoint. Fare skate ti permette di essere coinvolto nello spazio, da te e per te”.

Scene di spensieratezza in mezzo a una terra purtroppo abituata alla violenza, una violenza ordinaria, quotidiana, abituale. “Quella violenza ordinaria”, dice Hammad, “è quasi il luogo in cui lo skating è più importante, perché è lì che la fuga ti permette di vivere nell’immaginazione. Quella capacità di essere nell’immaginazione è anche una forza contraria contro una realtà molto sistematica in cui è difficile immaginare la gioia, la speranza o la felicità quando si vive in Palestina come palestinese. Lo skating non è una “soluzione valida per tutti”. Ma per un piccolissimo gruppo di skater palestinesi, è il loro mondo, perché è uno dei pochi momenti in cui è loro permesso, o si permettono, di essere in questa immaginazione di gioia, gioco, speranza, comunità. Cose straordinarie di cui penso che i giovani dovrebbero poter sempre godere”.

Photo Courtesy: Maen Hammad

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