Francesca Alfano Miglietti (FAM): “L’arte è meraviglia”

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Il tema dell’invisibilità, l’idea di un’arte che vada oltre il visibile, i concetti della meraviglia, della sorpresa – non necessariamente come elemento positivo – sono al centro della mostra “Visibile/Invisibile. Tecniche della Meraviglia” alla Casa degli Artisti di Milano.

L’esposizione è a completamento di una residenza artistica curata da FAM, al secolo Francesca Alfano Miglietti, difficile da definire “solo” come curatrice o storica dell‘arte. L’acronimo FAM ben simbolizza infatti il suo modo di vivere l’arte contemporanea, fra testimonianza e trasgressione, evoluzione e critica sociale, moda e amore per la cultura; il curriculum è impressionante, tra libri e riviste, mostre e giurie, più un elenco di premi e riconoscimenti, dentro e fuori d’Italia.

Fam. Foto ©William Fernando Aparicio.

Ma FAM oggi si è messa di nuovo in gioco con questa residenza d’artista, che avrà il suo culmine appunto il 15 dicembre, alla Casa degli Artisti di Milano, con l’esposizione al pubblico delle opere create in questi mesi.

Le abbiamo rivolto alcune domande, per cercare di capire com’è nata questa residenza d’artista, quale sia la sua idea di arte e qual è la sua opinione sullo stato dell’arte oggi.

FAM, per prima cosa ci puoi raccontare come sono stati scelti gli artisti di questa residenza?

Una commissione proposta dalla Casa degli artisti ha selezionato, attraverso una Open Call, a cui hanno partecipato oltre duecento artisti, i protagonisti della residenza. Abbiamo creato per questo tipo di residenza delle anomalie: si è deciso di avere tre artisti tutor (Cesare Fullone, Giuliana Cuneaz, Antonio Marras) e i sei artisti scelti alla fine per la residenza – Florentin Aisslinger, Lan Gao, Olmo Gasperini, Marco Paganini, Dario Pruonto (Caos) e Alessia Rosato – sono stati scelti con un criterio molto preciso.

Qual è stato questo criterio?

Che fossero ingenui, che fossero dei sognatori e che avessero delle ossessioni, che ognuno avesse un lavoro ossessivo: che in realtà sono delle caratteristiche che appartengono all’arte. Eugenio Borgna – noto psichiatra – dice che la poesia è la sorella minore della follia, quindi è stato questo il nostro criterio.

Tutte le opere in mostra sono nuove produzioni appositamente create in questa residenza, attraverso la convivenza e la relazione, per quattro mesi, tra i tre artisti tutor e i sei artisti selezionati. Come si è svolta, in particolare, la scelta degli artisti?

I tutor scelti volevano essere tre indicazioni di poetica. Quindi la mostra che li vedrà insieme avrà anche lo stesso tipo di appello, quello di non lasciarsi andare ad una visibilità che ha a che fare con lo spettacolo, con la notorietà, ma che è invece il perseguire la propria strada come in un cammino spirituale.

Cesare Fullone

E i tutor, invece, come sono stati scelti?

Sono tre artisti completamente diversi tra loro, ma complementari. Cesare Fullone, ad esempio, ha sempre ritenuto che l’arte fosse una sorta di pericolo per la razionalità, per il quieto vivere. Non ha mai pensato a un’arte rassicurante, tant’è che in origine le sue opere erano avvolte da un filo spinato, quindi un modo per tenere lontano lo spettatore, non di avvicinarlo.

E per questa mostra cosa ha pensato?

Ci saranno tre lavori, una videoinstallazione, delle rose con il gambo di filo spinato e l’ultimo, che verrà collocato sul terrazzo della residenza, è un’opera per metà di pane e per metà di pietra, che sarà sottoposta al mutamento del tempo.

Giuliana Cuneaz

Altra tutor è Giuliana Cuneaz, una pioniera nell’utilizzo delle nuove tecnologie che lavora con animazioni 3D, videoinstallazioni e pittura digitale.

La Cuneaz da sempre lavora con le tecnologie più avanzate, ma non ha mai perso l’incanto della fiaba. Per cui una tecnologia che non è fredda, che non è razionale, che invece viene utilizzata come ingrediente della narrazione, per raccontare: che è asservita, quindi, alla poeticità e che non diventa il primo linguaggio.

Antonio Marras, Gabbia.

Il terzo tutor è un artista che è anche stilista. Come mai lo hai scelto?

Antonio Marras ha fatto del fare, del trasformare la materia, ma soprattutto del non pensare che ci siano oggetti morti, il suo modus operandi e di dargli, quindi, una nuova vita, un’estetica.

I luoghi dell’esposizione sono tre, due all’interno e uno all’esterno sul terrazzo, una porzione di mostra in cui le opere non possono essere avvicinate dagli spettatori, ma viste e osservate dalle finestre delle varie stanze della residenza. Dunque, opere che non temono il tempo o la dissoluzione, ma che invece temono la vicinanza degli spettatori. Chi o che cosa troveremo in mostra?

Artisti tutti molto diversi tra loro. Si sono opere che vanno dalla intelligenza artificiale alla pittura ad olio. Non c’è il suggerimento di un’unica tecnica né di un’unica visione, ma ci sono diversi modi di vedere, anche perché la soglia tra visibile e invisibile è rispetto a quello che noi siamo, a quello che conosciamo, quindi tutto si gioca anche su che cosa vogliamo vedere.

Alessia Rosato, Stone Age.

Quindi il fil rouge non è la tecnica e neanche un tema preciso, ma l’ossessione dell’artista…

Io penso che gli artisti non abbiano tanti pensieri rispetto all’opera, ognuno lentamente e forse anche inconsciamente, nel corso della vita ha selezionato un unico modo di vedere o di cercare. E questo succede anche in artisti come Picasso che sembra che abbiano cambiato tanto, in realtà se noi andiamo a vedere le opere giovanili di Picasso, il periodo blu e rosa, il cubismo, ma anche la tauromachia finale, c’è questo sguardo dove l’arte comunque è una sorta di sovvertimento, di trasgressione alla regola. Anche il fatto di vedere solo tutto blu o tutto rosa, di caratterizzare il tutto, il blu con la povertà e il rosa con il circo, per esempio, è un modo di vedere, un filtro molto potente e il cubismo è un modo di vedere quello che si sa, non quello che si vede.

Florentin Aisslinger, Living with Matter, 2022.

Le opere esposte affrontano anche tematiche legate al sociale, all’ambiente?

Anche. Un esempio è quello di Florentin Aisslinger, che ha come soggetto il clima, ma la differenza tra la poetica e la politica sta nel fatto che non è mai un’opera che diventa un proclama, ma che diventa una tensione, una sorta di allarme, di indicazione, di sguardo su un certo tipo di problema. Noi non possiamo far finta di niente, siamo in un momento in cui ci sono due guerre ai confini di casa nostra, due guerre molto pericolose, e ancora una volta verifichiamo che è l’avidità alla base del conflitto. Bisognerebbe incominciare a progettare l’amicizia e invece noi continuiamo a progettare conflitti.

Vorrei parlare un momento di te. In un’intervista hai detto che è difficile collocarti e che non ami definirti una curatrice, perché?

Nasco e vivo come un critico d’arte, ma non amo definirmi in un unico modo, è sempre stato ostico farlo. Ti faccio un esempio: il secondo libro che ho scritto negli anni Novanta era, secondo me, molto bello e molto visionario. Con l’incoscienza di quelli che hanno poco più di vent’anni mi sono detta: ci sono libri d’arte antica, libri di arte moderna, di arte contemporanea, ma non uno in cui il tempo non è così rigido. Il libro si chiama L’arte pericolosa il primo capitolo è su El Greco, Van Gogh e Cucchi, che sono tre artisti visionari. Tutto il libro è strutturato così per sette categorie morali. Beh, questo libro ha fatto incazzare tutti, gli storici dell’arte, perché, secondo loro, un critico d’arte non deve scrivere di storia dell’arte e i critici perché, secondo loro, i critici non devono occuparsi di storia dell’arte. Per questo poi ho scritto Identità mutanti – Il libro è stato definito la “Bibbia” delle contaminazioni, dove compare il tracciato di un’arte fuori dalle costrizioni dell’addestramento culturale.

Dario Pruonto (Caos), Viavai.

Che tipo di rapporto hai con gli artisti che segui?

Come in tutte le relazioni umane ci sono delle reciprocità, difficilmente guardo prima l’artista, ciò che mi colpisce è l’opera, sono sempre molto irritata quando mi chiedono quante donne ci sono in una mostra perché non guardo neanche attraverso il filtro del femminile e del maschile e, secondo me, anche gli artisti guardano chi scrive con lo stesso criterio.

Cosa ti attira maggiormente in questo momento nel mondo dell’arte?

Mi interessa molto un’arte che inquieta, che ci fa fare delle domande, non un’arte rassicurante, per cui è quasi inevitabile la scelta di artisti che non sono rassicuranti, da Serrano a FranKo B., da Kiefer a Lan Gao, da Olmo Gasperini ad Antonio Marras sono tutti artisti che ci raccontano non una quietudine, ma un’inquietudine. L’arte non ci vuole consolare, anzi io penso che gli artisti, se hanno un ruolo è quello di essere testimoni di un tempo, questo per me è molto importante, perché io credo che abbiamo un sacco di cose che ci consolano e la consolazione fa parte dell’economia del mercato, dello spettacolo, che ci fa vedere sempre quello che il mercato garantisce, tutela, ma il mercato è una cosa e quasi sempre l’arte è un’altra.

Nella perturbante mostra “Corpus Domini, dal corpo glorioso alle rovine dell’anima”, allestita al Palazzo Reale di Milano nel 2022 e da te curata, hai presentato il corpo umano nelle sue molteplici forme e fragilità, esplorato, esibito, sottratto, annullato o reso invisibile. L’essere umano che perde la sua umanità e diventa oggetto. Ci sono delle assonanze con quest’ultima esperienza?

Questa residenza sulla Meraviglia non è molto diversa, perché lì si trattava del passaggio dal corpo alla sparizione del corpo. In questa mostra alla Casa degli artisti c’è questo passaggio dall’industria furba e modaiola dell’arte ad un racconto che vuole essere ingenuo. L’opera di pane alla fine della mostra non ci sarà più, perché se la mangeranno gli uccelli o se piove diventerà altro. Il lavoro di Lan Gao è un lavoro che ci incita a mettere sull’opera quello che noi vogliamo, perché lei ne dipinge il retro. Olmo Gasperini ci parla di un’Annunciazione che non è sicuramente quella classica, ma è un invito anche a guardare in alto. Il lavoro di Marco Paganini ci chiede attenzione, è una tenda usata dagli homeless che noi vediamo nei parchi o dagli studenti che non trovano case, che con il linguaggio Morse ci dice: “io sono qui”. Come dicevo prima c’è un modo di fare politica che è poetica, gli artisti non scrivono manifesti di sovvertimento ma continuano a farci vedere quello che non vogliamo vedere.

La mostra si è avvalsa della collaborazione di Vincenzo Argentieri, assistente alla curatela, e di Christian Gangitano che ha collaborato a tutte le fasi della residenza e della mostra, che sarà “visibile” e visitabile alla Casa degli artisti di Milano fino al 21 gennaio.

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