A Pavia c’è un “microfestival” in cui si parla di salute mentale

In un panorama nazionale ricchissimo di festival tematici, un piccolo grande gioiello ci giunge da Pavia e dal suo Broletto.

E’ la prima edizione del Microfestival delle COSE UMANE, organizzato da Cavallo Blu, un team di professionisti che, dalla sede di Vigevano, promuove l’arte di soggetti portatori di fragilità come reale strumento di cura e inclusione. Accanto alla quotidianità di interventi sul territorio a vantaggio di donne e uomini, oltre a Scenius galleria virtuale e piattaforma online, unica nel suo genere, di proposta delle opere d’arte degli artisti scoperti e affiancati da Cavallo Blu, quest’anno (e ci si augura vivamente da quest’anno) c’è il salto ambizioso di un festival che, come ci dice il direttore Paride Ferrari, “affronta e mostra la sfida che affrontiamo con gli artisti outsider per andare oltre gli stereotipi legati alla marginalità e ai disagi psichici”.

Adele Ceraudo ©fotografia di Tommaso Correale Santacroce

L’ambizioso programma che si dipana lungo ben 10 giorni, “scelti non a caso, in quanto questa decade coincide include il 10 ottobre, che è la Giornata Mondiale della Salute Mentale”, e che ha appunto come scenario l’atmosfera storica del Broletto di Pavia, “è stato possibile – continua Ferrari – grazie a uno sforzo organizzativo gigantesco, fatto dall’enorme lavoro di volontariato dei membri del sodalizio vigevanese e la vicinanza di CGIL Lombardia, SPI-CGIL pavese e Comune di Pavia”. L’evento prevede cinque padiglioni dedicati ad altrettante mostre personali di artisti, esperienze perfomartive legate alla marginalità, dibattiti sul tema e presentazione di libri, drammaturgia teatrale.

Dopo questa lunga e necessaria premessa e anticipando che, fatti salvi due casi, il lettore noterà la mancanza di titoli delle opere d’arte in visione e ne capirà chiaramente la ragione, si entra nel vivo di una promenade artistica che oscillerà sempre tra la stella polare dell’Art Brut e la corrente più ampia e magmatica dell’Outsider Art, una promenade che terrà sempre ben piantati a terra gli elementi legati alle “cose umane che – come conclude Paride Ferrari – sono il centro e le radici da cui sgorga la creatività artistica posta all’attenzione e alle reazioni del visitatore”.

Gioele Miceli ©fotografia di Tommaso Correale Santacroce

L’analisi artistica della proposta del Microfestival inizia da tre artisti, accumunati dal progetto I AM AN OUTSIDER, e inizia dalla saletta del Broletto che ospita i quadri del giovane milanese Gioele Miceli. L’arte pittorica su supporti di piccole dimensioni di Miceli è frutto di un percorso scolastico e umano tangente alla creatività artistica e ad un perenne lavoro di abbeveramento presso le icone artistiche di ogni tempo. L’artista ci restituisce piccole opere dal tocco molto delicato, cromaticamente molto ricche, con acrilici che ci appaiono il risultato di un processo creativo tumultuoso ma in fondo controllato. E così scorrono davanti a noi personali rielaborazioni di Frida Kahlo, cenni di Ligabue e Van Gogh, una Madonna con Bambino e anche tanti fiori e animali che popolano l’universo speciale di questo giovane artista.

Andrea Gavazzi ©fotografia di Tommaso Correale Santacroce

Molto poliedrico è il torinese Marco Avaro, musicista, fotografo, scultore e pittore, che, sebbene presenti gli stessi stilemi di Miceli, nei fatti si presenta irruente e compulsivo, molto più materico, con pennellate che paiono vibranti e poderose. Padrone anche di una cruda tecnica mista, l’arte di Avaro è più indefinibile con una marcata e maggioritaria presenza femminile tra i soggetti figurati.

Più strutturata tecnicamente è la pittura del pavese Andrea Gavazzi, frutto anche di studi legati alla didattica artistica. I suoi quadri rappresentano mondi ben riconoscibili ma sospesi, trasmettono un piacevole e spiazzante senso di inquietudine, sembra sempre che qualcosa debba succedere e ricalca l’angosciante esperienza di volti senza espressività. Del resto, nel manifesto personale artistico di Gavazzi, l’arte appare prima con un volto benevolo e rassicurante per poi travolgere e soffocare, permettendo all’artista di lasciare comunque la sua cifra espressiva.

Sette sirene ©fotografia di Tommaso Correale Santacroce

“Ho voluto richiamare con questo progetto decennale l’attenzione sulle grandi tematiche che angosciano l’età contemporanea: le guerre, le violenze di genere, la crisi climatica, le migrazioni.” Con questo cappello introduttivo il poliedrico Tommaso Correale Santacroce ci introduce a LE SETTE SIRENE, una installazione di lunga gestazione e intensissima per vastità. Sette sirene in terracotta rossa e una in terracotta bianca – aggiunta più recentemente – occupano lo spazio della sala centrale, coinvolgendo praticamente quasi tutti i sensi del visitatore.

Correale Santacroce dimostra di padroneggiare molti ambiti tecnici: la scultura, la narrazione, il suono, l’elettronica, l’illuminazione, i sensori. E il risultato è una installazione multisensoriale composta da sette pezzi duplici, una bocca che rappresenta la voce ancestrale e a volte urlata della coscienza e una maschera sovrastante che è “quella che indossiamo noi umani” per le sette sirene rosse e una sorta di altoparlante a forma di sirena bianca nel caso dell’ottava. “Le sirene emettono suoni dal profondo – aggiunge Tommaso – sono fiabescamente eroine che desiderano superare la propria condizione e comunque rappresentano un’allerta di richiamo e di speranza insieme”. 

Adele Ceraudo ©fotografia di Tommaso Correale Santacroce

E, a proposito di urlo, non si può non sentire, sia all’udito che vibrare dentro, quello di Adele Ceraudo proveniente dal salone laterale del Broletto. L’artista cosentina, novella figura munchiana, rappresenta realmente se stessa nell’arte che propone: “si mette letteralmente a nudo, mostrando di sé un corpo femminile che riflette l’infinito caos interiore che la anima”, ci dice sempre, in modo sintetico ed efficace, Paride Ferrari. Artista molto poliedrica, capace di spaziare dalla video arte alla fotografia, dalla pittura al disegno, Ceraudo sembra perennemente in lotta con l’ortodossia umana.

Marco Avaro ©fotografia di Tommaso Correale Santacroce

Anche nota con lo pseudonimo di Lady Bic, effettivamente riesce a tracciare con la semplice e quotidiana penna maschere umane che combattono con il dolore, con i fantasmi personali, con le norme che la società vorrebbe imporre. Nel cortometraggio girato nelle stanze abbandonate dell’ex Ospedale psichiatrico di Udine, intitolato IO NON SONO PAZZA l’artista ha il candore esterno di una vestale che si aggira tra quei luoghi colmi di dolore riuscendo pienamente a trasmetterci il suo, anche – e non solo – grazie al già citato urlo. Ma tutta la sua intensa e coinvolgente arte trasuda FOLLIA che ci interroga e che è il titolo progettuale e fil rouge che accompagnano la sua creatività e la conseguente reazione del visitatore. 

“Grezza, spontanea, pura, scevra da condizionamenti culturali e da approvazioni, immediata, schiva. Arte”, è la definizione che nel 1945 diede Jean Dubuffet dell’Art Brut. In questo Microfestival, dall’aggettivo qualificativo volutamente pudico e low profile ma destinato a lasciare una traccia profonda, di arte grezza, spontanea, pura, scevra da condizionamenti di mercato e da approvazioni accademiche, immediata e schiva perché fin troppo aderente al personale, c’è un’antologia di grande spessore, capace dunque di allargare i confini semantici di art brut e outsider art.

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