A Londra, apre la prima Fiera d’arte vietata agli uomini. E non solo.

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Da oggi fino al 14 ottobre, alle Mall Galleries di Londra – nel pieno della bollente Frieze Week – si alza il sipario su WIAF (Women In Art Fair), prima fiera dedicata esclusivamente alle donne. Anzi, meglio: alle persone che si identificano con il genere femminile. Non si può dire che non sia una magnifica notizia, giusto? Donna è la direttrice, Jacqueline Harvey, giornalista, scrittrice e business girl, la quale si dice giustamente scandalizzata dal fatto che solo il 2% dei 196 miliardi di dollari spesi in asta negli ultimi dieci anni abbia a che fare con artiste donne.

Donna è la curatrice della mostra Unnatural Women, ospitata nella East Gallery: si tratta di Rowena Easton, artista a sua volta, che ha raccolto opere di pittrici, scultrici, fotografe e performer a cavallo tra XX e XXI secolo che indagano il rapporto con la natura. E donne saranno tutte le artiste rappresentate, le galleriste e anche le curatrici. Una scelta forte, dunque, per “compensare lo squilibrio”, come dicono le organizzatrici.

Ma solo io sento puzza di bruciato?

Vorrei che alzassero la mano tutti gli uomini artisti, galleristi e anche i miei colleghi curatori che si sentirebbero rappresentati da una fiera “per soli uomini” (a meno che la definizione non abbia quel retrogusto un po’ retrò a indicare locali fumosi e ballerine discinte). Io, personalmente, non sono tanto sicura che la compensazione degli squilibri possa passare attraverso – posso dirlo? – una segregazione tipo nativi americani nelle riserve.

Secondo me la parità reale si può cominciare a intravedere attraverso operazioni come quella che ha fatto Cecilia Alemani l’anno scorso con la 59° Biennale di Venezia, che, forse per un eccesso di zelo, ha ridotto i maschietti a una sparuta compagine (e vabbè, che qualche volta provino anche loro l’ebbrezza), ma che non si è mai sognata di mettere all’ingresso dell’Arsenale o dei Giardini un cartello con un omino barrato.

Iniziative come la Fiera per sole donne mi fanno un po’ paura, non solo per quel pernicioso “effetto panda” (poverine: prima che si estinguano diamo loro un po’ di bambù), ma anche perché salta all’occhio che così non può funzionare. Né può durare. Passata la moda, si torna come prima.

Questo non è altro che l’ennesima sottolineatura di come il genere maschile sia percepito come umanità e il genere femminile sia “l’altro”.

E così mi viene da arricciare un po’ il naso anche davanti alla Biennale d’arte femminile di Bruxelles, Women in Art, in programma dal 16 al 29 ottobre con l’edizione “0”, tutta locale, in vista della prima ufficiale che sarà nel 2025 (l’iniziativa, in realtà, risale al 2019 e vanta quindi già due edizioni online).

E con la stessa smorfia guardo alla rivoluzione in atto oggi al MACM (Musée d’Art Classique de Mougins, borgo provenzale che sembra uscito da una favola dei fratelli Grimm), che ha chiuso i battenti il 31 agosto per rinascere l’estate prossima tutto nuovo sotto il nome di FAMM (Femmes Artistes du Musée Mougins). L’idea è di Christian Levett, piacente cinquantatreenne che oltre a occuparsi di hedge fund ha costruito una collezione d’arte talmente sterminata da farsi venire voglia, nel 2011, di farne un museo, perché anche altri potessero goderne. Ora, però, ha preso la decisione di nascondere nelle segrete tutte le opere a firma maschile per offrire al suo pubblico solo capolavori senza il cromosoma Y. I nomi sono di quelli davvero interessanti, da Joan Mitchell a Lee Krasner, da Helen Frankenthaler a Grace Hartigan, da Elaine de Kooning a Louise Bourgeois, da Tracey Emin a Sarah Lucas e poi Howardina Pindell, Joan Semmel, Nancy Graves, Cecily Brown, Carrie Mae Weems, Barbara Hepworth, Marlene Dumas, e ancora Alma Thomas, Leonor Fini, Franciszka Themerson, Elizabeth Columba e Sahara Longe. Nomi, anche, che permettono davvero di allargare lo sguardo da figure più conosciute verso personaggi che il grande pubblico non ha probabilmente mai sentito nominare e che meritano di essere approfonditi.

Ma la mia domanda resta la stessa: tutto questo ha davvero senso? E funzionerà?

Non è – dico per dire – che se noi ci laviamo la coscienza con la fiera per le donne poi ci sentiamo autorizzati a lasciare Art Basel e tutti i grandi baluardi dell’arte ai soliti noti?

E se esistono ancora pregiudizi come quello del collezionista che, innamorato di un’opera della Fioroni, decise di non comprarla perché Giosetta era un nome femminile e “le donne, si sa, a un certo punto si mettono a fare bambini e smettono di fare arte”, il mio dubbio è che un collezionista come quello finisca per dire: “Ah, ok, qui ci sono solo donne? Allora non ci vado”.

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