Franco Farina, artista visionario ostuense, con la sua ultima personale Gli Occhi della terra – nello Spazio Field, all’interno del prestigioso Palazzo Brancaccio, antica dimora nobiliare romana costruita entro le mura aureliane, fino al 1 marzo a cura di Alessia Dei – si pone come fautore di un atto di contestazione, di un grido di protesta di fronte all’indifferenza che connatura il nostro mondo. Farina si fa artefice di questa rivendicazione artistica plasmando l’anima della madre terra utilizzando materiali destinati all’oblio. Attraverso la selezione di lamiere, vecchi oggetti e scarti che avrebbero trovato la loro fine nelle discariche, dà vita a figure mitologiche, religiose e profane. Un gioco sottile, una metafora celata ma a tratti evidente, di come tutto, se trattato con etica e rispetto, possa continuare a vivere. Come un creatore espira il suo soffio vitale generando una nuova vita, trasformando il rifiuto in opera d’arte, senza tenere in considerazione sovrastrutture e convenzioni che generalmente la caratterizzano.
Trasformare materiali di scarto in opera d’arte è una scelta coraggiosa e ci porta obbligatoriamente a riflettere su temi ecologici. Franco Farina, però, si distacca dal comune immaginario dell’idea di riciclo. All’interno delle sue opere, infatti, l’idea primaria di scarto e la sua identità più intima, rimangono. Assurgono a nuova vita, ponendosi con vigore e forza come creazioni nate ex – novo senza rinnegare il loro passato di scarto. Passato e presente dialogano pacificamente, si fondono in qualcosa che non porta più con sé l’idea del tempo. I personaggi sono collocabili in ogni epoca e in ogni luogo. Non è più importante il dove e il quando: quello che conta è cosa e perché. Sta allo spettatore farsi trasportare, giocare con l’immaginazione e attribuire dettagli soggettivi alle opere, partendo dal messaggio di base: tutto può rivivere e mantenere dignità.
Lo spazio è concepito come una grande piazza. Stando al centro abbiamo l’impressione che tutti, esseri umani e non, ci stiano osservando, primi tra tutti Gli occhi della terra. Al centro troneggia una grande scultura composta da due personaggi distinti: San Francesco e Persefone, dea degli inferi e moglie di Ade. I due mettono in atto un confronto significativo che coinvolge tutti gli esseri umani. Il primo lo fa con un innato spirito pacificatore, la seconda mettendo a servizio della scena tutta la sua forza. Fulcro centrale del loro dialogare è la volontà di sensibilizzare l’uomo nei confronti della Madre che lo ha generato. Si avverte tensione, inquietudine; si viene avvolti da un alone di precarietà e imperfezione. Ci si sente piccoli, insignificanti e padroni di qualcosa che un padrone non lo può avere.
Francesco e Persefone sono l’incarnazione di un dialogo ancestrale tra la Terra che nutre e il sottosuolo che esige rispetto. Entrambi vengono raffigurati con le braccia aperte; Francesco esprime compassione, ci invita amorevolmente a preservare la nostra casa comune. Persefone, invece, sprigiona una furia disperata, le sue mani artigliate sono simbolo di un grido di aiuto, di un richiamo alla responsabilità.
Le figure intorno, caratterizzate da occhi grandi e penetranti, partecipano al dialogo e smaniano per contribuire alla salvezza di chi le ha generate. Spiccano La donna blu dalla finestra del suo chiosco, I coniugi dal loro letto, le Braccia di Mare mentre annaspano lottando per sopravvivere chiedendoci di ascoltare il loro lamento, La ragazza e La Watussa che recano con sé simboli di speranza e la schiera dei Santi, consapevoli del loro potenziale salvifico. Tutti questi personaggi sono insoddisfatti, sopraffatti dai tumulti del loro tempo, incompresi, esclusi, ma dotati di grande forza interiore che gli impone ribellione, rivendicazione e voglia di riscatto. Siamo di fronte ad una mostra che invita alla speranza, che ci spinge a vedere con occhi critici e a trovare soluzioni, che ci fa sentire parte integrante di un mondo che, per il solo fatto di averci donato la vita, merita rispetto e amore.