Chi ha ucciso Rosso Fiorentino? Arsenico e vecchi rancori alla corte del Re di Francia (Pt. 4 – Fine)

Siamo arrivati all’ultimo capitolo della nostra indagine – sempre tenuta, va pur detto, in sottile quanto insidiosissimo bilico tra ricostruzione storica e divagazione letteraria – sulla misteriosa morte del Rosso Fiorentino alla Reggia di Fontainebleu. Nelle puntate precedenti (Chi ha ucciso Rosso Fiorentino? Pt. 1, Pt. 2 e Pt. 3), abbiamo visto come, a partire dall’arrivo, come rinforzo del Rosso Fiorentino nei lavori di decorazione della Reggia, del Primaticcio prima, e di quella bestiaccia di Benvenuto Cellini poi, la situazione alla corte del Re di Francia si fosse fatta e si facesse via via più tesa. Colpi bassi, veleni, sgambetti, insulti, risse e minacce di morte erano ormai all’ordine del giorno a Fontainebleu (e fino a qua, signori, non ci affidiamo alle dicerie né alle divagazioni letterarie, ma alle testimonianze certe sulle vite degli artisti, con l’eccezione di quelle, piuttosto edulcorate e fumose, del Vasari). Lo scopo? Accaparrarsi i favori del Re, oltre che la maggior parte delle commesse per i lavori all’interno della Reggia. E abbiamo visto come molti dei lavoranti (decoratori, disegnatori, stuccatori, coloristi, intagliatori, etc.) pencolassero di volta in volta tra i due diversi partiti, quello dei fiorentini (capitanato dal Rosso assieme al Cellini) e quello del “Bologna“, ovvero il Primaticcio. Quest’ultimo, però, aveva un asso nella manica: il favore di Madame d’Etampes, non solo amante e favorita del Re, ma anche potentissima plenipotenziaria a corte, dove non si muoveva messe che Madame non volesse.

Dopo una serie di violenti scontri tra le due fazioni, dunque, e il passaggio di molti dei lavoranti dalla squadra del Rosso a quella del Primaticcio – dato, quest’ultimo, per “vincente” nella corsa ad accaparrarsi le commesse migliori e più renumerative, proprio grazie al fatto che godesse dei favori di Madame; dopo, ancora, la violentissima cacciata, da parte del Cellini, dal castello che gli aveva riservato il Re, di un “maestro di salnitri” e di veleni, che era invece alle dirette dipendenze di Madame (verosimilmente piazzato da Madame nel Castello del Cellini appositamente per spiarlo e tenerlo sotto controllo); e dopo, infine, un ultimo, violento scontro tra il Cellini e il Primaticcio, per la realizzazione di una serie di candelabri-colossi in bronzo e oro, che avrebbero dovuto rappresentare i dodici dèi dell’Olimpo (commessa alla fine conquistata tumultuosamente dal Cellini, come abbiamo raccontato in questo nostro precedente aneddoto, dopo che quest’ultimo si era recato a casa del “Bologna” minacciandolo di morte: “io subito vi ammazzerò come un cane!”); ecco dunque che, come diverse fonti ci raccontano, il Primaticcio viene provvidenzialmente (o prudentemente) “spedito via” da Fontainebleu. Il motivo? Ufficialmente, andare a Roma a rifornirsi di vecchie statue greche e romane, da riprodurre poi a Fontainebleu. Ma, come ci raccontano fonti ottocentesche, più che altro per “toglierlo via” dal clima di veleni, di minacce e di invidie senza fine di cui l’ambiente alla Reggia era oramai, e più che mai, preda. Ma perché spedirlo precipitosamente via, quando la sfida tra fiorentini, capitanati dal Rosso, e il gruppo capitanato dal “Bologna” si andava facendo via via più accesa e più drammatica? Per “calmare le acque”, come racconta la fonte ottocentesca favorevole al Primaticcio? O per risolvere, una volta per tutte, le cose, e lasciare la definitiva supremazia sui lavori della Reggia a uno solo di loro – il famoso “out out”, o lui o io, tante volte declamato nella grande Storia oltre che nelle piccole vicende umane, sentimentali o meno che siano?

È un fatto, dunque, che il Primaticcio venga spedito a Roma da Re Francesco, per toglierlo da un clima tutt’altro che sereno all’interno della corte e de’ suoi pittori. Ma di chi fu l’idea? il Cellini ci dice che fu dello stesso Primaticcio (“il Bologna pittore sopra ditto dette ad intendere al Re, che gli era bene che Sua Maestà lo lasciassi andare insino a Roma“). Secondo altre fonti, fu il Re che (consigliato da qualcuno? Magari proprio da Madame, come abbiamo visto che avveniva spesso?) “divisò di spedirlo in Italia”. Ora, è senz’altro lecito chiedersi: perché mai andarsene, o farlo andar via, quando la situazione è giunta ormai a un punto di non ritorno, un drammatico punto cruciale e decisivo, nella guerra tra le due fazioni? Lasciare il campo libero all’avversario, dunque? Lasciare che siano il Rosso e il Cellini, alla fin fine, ad avere “mano libera”, ora che ci sarebbero da raccogliere onori e denari a piene mani, accaparrandosi le migliori tra le commesse? Strana, molto strana, questa improvvisa fuga, da parte di uno ambizioso, scaltro ed intrigante (con le sue “lombardesche raccoglienze”, lo definisce il Cellini quando va a trovarlo per minacciarlo di morte) com’era il Primaticcio. No, non è tipo da darsi alla fuga, il Primaticcio, se non ha un buon motivo per farlo; non è tipo da tirarsi indietro, se non ne è costretto, o se non ha un fine più ambizioso e più remoto. Fuga, dunque, o provvidenziale “ritirata strategica” in vista di una vittoria definitiva, da studiarsi a tavolino, e da posticiparsi a un momento successivo – giacché la vendetta, come si dice, “è un piatto da servirsi freddo”?

È davvero più che mai necessario domandarsi cosa si nascondesse, dunque, dietro a questa improvvisa e provvidenziale partenza del Primaticcio per l’Italia, mentre a Fontainebleu si decidevano le sorti dell’intero impianto decorativo della Reggia; e capire se, come sostengono le fonti successive, essa fosse davvero un tentativo di calmare le acque, o non fosse invece da ravvisarsi una malcelata volontà di evitare che “il Bologna”, com’era chiamato il Primaticcio, venisse coinvolto in qualche oscura trama che si andava nel frattempo preparando nel chiuso della corte reale, per farlo poi tornare solo a cose fatte – quando, cioè, messo definitivamente fuori giuoco il Rosso, costui potesse prendere il suo posto come direttore di tutti i lavori della Reggia. E, soprattutto, è lecito domandarsi se sia veramente stato il Re ad avere l’idea di far partire precipitosamente il Primaticcio per l’Italia, per toglierlo da una situazione che si faceva vin via più seria e più pericolosa, o non ci stata in questo la “manina” di qualcun altro, che, forse anche ad insaputa dello stesso sovrano, tramava per rovesciare le sorti di chi avrebbe avuto potere assoluto sui lavori nella Reggia. Eccoci dunque, signori, al momento clou del nostro romanzetto: e siamo qua, si rassicurino i filologi e gli storici, nel pieno delle congetture e delle trame squisitamente letterarie: perché, da qua in poi, non vi sono più certezze, ma solo un complesso ordito di trame, di sospetti, di complotti, di vaghe e oscure relazioni…

Madame d’Etampes gli intrighi di corte

Difficile, dunque, davvero difficile non pensare a lei, Madame d’Etampes, la “maledetta donna” (così il Cellini nella Vita) senza il cui consenso nulla si moveva a corte, né guerre né trattati di pace e neppure incarichi governativi, e che voleva avere il più stretto controllo de’ pittori e delle opere ad essi commissionate sul suolo di Francia: al punto che, strenua protettrice del Primaticcio, farà di tutto per far avere a lui, e solo a lui, le migliori commissioni, e infine il potere assoluto delle cose riguardanti le decorazioni e le pitture all’interno della Reggia, tramando, intrigando, manovrando a piacimento il Re contro chi le osava metterlesi contro o rischiava di rovinarle i piani (cosa che, tuttavia, le costerà assai cara alla morte del sovrano, allorché il Delfino, una volta divenuto Re col nome di Enrico II, la esiliò in uno dei castelli in Bretagna di proprietà del marito, togliendole non solo il potere che nel tempo aveva acquisito sulle decisioni interne alla corte, ma anche denaro, proprietà, terre e castelli, e sorte analoga toccò a tutti i suoi parenti e a tutti gli amici ed alleati che nel tempo del regno di Francesco I grazie a lei avevano ampiamente prosperato).

Ora, non potendoci qui dilungare troppo sulla personalità di tale donna (di cui abbiamo già parlato nel nostro aneddoto riguardante il suo burrascoso rapporto con Benvenuto Cellini), va però detto che la sua influenza non si limitava affatto alle questioni riguardanti l’arte, e che non c’è né esagerazione né pregiudizio nel descriverla come una vera e propria plenipotenziaria alla corte del Re di Francia, di cui divenne amante fin dall’età di 18 anni (ma qualche storico successivo, come Paulin Paris, suggerisce che il Re si fosse innamorato di lei tra il 1523 al 1524, quando ella non aveva più di quindici o sedici anni, avendola conosciuta come damigella di corte della madre, Luisa di Savoia). Quasi tutti gli storici (a parte quelli troppo vicini al suo tempo, per forza di cose assai reticenti nel raccontare particolari che era assai più conveniente tacere) sono concordi nel riferire di una donna che “spadroneggiava” sul trono di Re Francesco (così Michelet: “la maîtresse trôna et la sœur fut destituée”), che faceva e disfava, non soltanto portando sugli altari chi voleva lei (a cominciare da ogni sorta di amici e parenti), ma influenzava, con un piccolo corteo di donne a lei fedeli (la “petite bande”), la politica del Re di Francia.

La “petite bande” delle preferite del Re

Accanto a Madame d’Etampes (divenuta duchessa nel 1436) si contano nella “petite bande” di preferite del Re le due sorelle di Madame d’Etampes, una sorella illegittima del Re, una tal duchessa di Montpensier, una certa contessa di Vertus, e ancora moglie e figlie di persone vicine al Re e di suoi stretti consiglieri, oltre a quella Françoise d’Alençon, duchessa di Vendôme, donna assai influente a corte, che il re adorava e per la quale creò il Ducato di Beaumont.

Tornando dunque a Madame d’Etampes, infinte testimonianze ne elencano l’immenso potere acquisito negli anni a fianco del Re, che neppure la Regina poteva, o voleva, contrastare (forse, come lo storico del periodo Pierre de Bourdeille, detto Brantôme, anche la Regina pensava, dopotutto, che fosse meglio che il Re si circondasse di dames de maison, di buona famiglia, piuttosto che facesse come i suoi predecessori, che trasformarono la corte reale in una “suite de putains).

Era così che Madame d’Etampes poteva ricevere e parlare a tu per tu con ambasciatori, cardinali, cancellieri, ammiragli, nunzi pontifici; questioni come la guerra, i trattati di pace, le nomine di questo o di quel consigliere o di questo o quell’altro plenitpotenziario in quegli anni passano tutte da lei. Nella primavera del 1541 – soltanto un anno dopo la morte del Rosso Fiorentino – l’ambasciatore di Ferrara disse che era lei a decidere ogni cosa a corte, e l’ambasciatore imperiale disse testualmente: “Non c’è nessuno nel Consiglio del Re, se vuole avere qualche chanches di governare, che osi parlargli di cose piccole o grandi se prima non si è assicurato che Madame le trouvera bon”.

Il furto, le accuse, il veleno

Alexandre Evariste Fragonard Francesco I nellatelier del Rosso

Siamo dunque al momento clou del nostro petit drame de cour: cosa succede in quelle drammatiche settimane, alla corte di Re Francesco? Le fonti tacciono, un silenzio assordante accompagna gli ultimi giorni e le ultime settimane del Rosso Fiorentino alla corte del Re. Pochi gli elementi, altrettanto scarse le fonti. Primaticcio è a Roma, il Cellini si gode, o crede di godersi, quella che ritiene essere la sua vittoria sul Bologna, precipitosamente rifugiatosi in Italia (“andò nella sua malora questa bestia”). E il Rosso, che oramai “non più da pittore, ma da principe vivendo”, pareva non aver più rivali, seguitando – sappiamo solo “de relato”, dalla fonte (a sua volta riportata dal Vasari), del suo ex collaboratore Francesco Pellegrino, esperto in decorazioni “à la moresque” –, a “tenere vituperosi modi”, comportandosi da “uomo disleale e cattivo”. Che successe, dunque, a quel punto? Poche cose son certe: qualcuno sottrasse dei denari (“alcune centinaia di ducati”) dalle casse del Rosso; ne escì uno scandalo; Rosso incolpò, si sa, l’innocente Francesco Pellegrino; costui fu arrrestato, poi rilasciato; ne nacquero dicerie, pettegolezzi, insulti, recriminazioni, forse minacce. Pellegrino, anche questo pare certo, pubblicò un libretto d’accuse contro il Rosso; poi, ecco il misterioso viaggio d’un contadino a Parigi, la ricerca di un “terribile veleno“, il precipitoso ritorno, col veleno, al Castello ove costui viveva; infine, l’improvviso malore del pittore: “avendolo egli, che sanissimo era, preso, perché gli togliesse, come in poche ore fece, la vita“.

Quel che accadde alla morte del Rosso Fiorentino

Francesco Primaticcio Il ratto di Elena particolare

È lecito, crediamo, porsi dunque qualche domanda di fronte a tante coincidenze, silenzi, colpi bassi, minacce e complotti che avvolgono le settimane che precedono quel fatidico 14 novembre del 1540: allorché, con la morte del Rosso, le cose infine non si appianarono definitivamente, e il Primaticcio poté da lì in poi regnare incontrastato come pittore di corte, direttore dei lavori della Reggia e, più avanti, anche abate di San Martino a Troyes, titolo che gli assicurò numerosi benefici (va detto che, anche dopo la morte di Francesco I nel 1547, egli continuò poi a lavorare sotto i tre sovrani successivi, Enrico II, Francesco II e Carlo IX). È indubbio infatti che l’uscita di scena del Rosso mise il Primaticcio nella posizione di non avere più rivali e di poter sovrintendere a tutte le pitture e le decorazioni della Reggia.

L’improvvisa morte del Rosso, sorprendentemente, non susciterà che scarsissime e assai deboli reazioni nei suoi contemporanei. “Morì il Rosso”, si limiterà a scrivere il Vasari, “lasciando di sé gran disiderio agl’amici et agl’artefici, i quali hanno mediante lui conosciuto quanto acquisti appresso a un prencipe uno che sia universale, et in tutte l’azzioni manieroso e gentile, come fu egli, il quale per molte cagioni ha meritato e merita di essere ammirato come veramente eccellentissimo”. E, quanto a Re Francesco: “la qual nuova essendo portata al re senza fine gli dispiacque, parendogli aver fatto nella morte del Rosso perdita del più eccellente artefice de’ tempi suoi”. Aggiungendo poi, laconicamente: “Ma perché l’opera non patisse, la fece seguitare a Francesco Primaticcio bolognese, che già gl’aveva fatto, come s’è detto, molte opere, donandogli una buona badia, sì come al Rosso avea fatto un canonicato”.

Morto il Rosso, il Primaticcio fu dunque sollecitamente richiamato a corte: che venisse egli a finire, gli si disse, ciò che il suo collega aveva lasciato a metà. Lasciata immediatamente Roma, non senza passare per Bologna a salutare gli amici, il Primaticcio, ricevuta la notizia della “misteriosa” morte del collega, torna dunque a Parigi, accolto trionfalmente a corte, recando seco le sculture e i bassorilievi che il Re gli aveva chiesto di portare. “Concorsero tutti li Parigini ad ammirare sì vaghe opere”, scrive il suo biografo ottocentesco, “e sorpresi della bravura in quest’arte del Primaticcio, lo innalzavano con mille lodi al cielo”.

La “cancel culture” del Primaticcio e i sospetti de’ fiorentini

Il quale Primaticcio, però, nel prendere in mano i lavori della Reggia rimasti incompiuti, non si limitò a finire il lavoro lasciato a metà dal collega fiorentino: “una gran parte delle stanze, che il Rosso fece al detto luogo di Fontanableò”, scrive il Vasari, “sono state disfatte dopo la sua morte dal detto Francesco Primaticcio, che in quel luogo ha fatto nuova e maggior fabrica”. Più accomodante, al limite della piaggeria, il biografo ottocentesco del Primaticcio, sostiene che egli “dovette di necessità in gran parte cancellare, e riformare ciò che il Rosso aveva lasciato incompleto nella Gran Galleria”; e lo fece, precisa, “e per giovare alla unità della invenzione, e più perché il lavoro riescisse tutto uguale ed uniforme”.

Va detto, però, che non tutti furono contenti di tanta foga cancellatoria, e che le lagnanze, i mugugni e fors’anche molti sospetti prosperarono a lungo, seppure sottotraccia: “Di tale indispensabile operazione altamente fanno querela i Toscani”, specifica il marchese biografo del Primaticcio, “ed accagionano con pungenti detti il Primaticcio di grave errore commesso”, per aver, “mosso da invidia”, cancellate le opere del Rosso. “Le quali ingiurie ed imputazioni de Toscani”, scrive l’adulante biografo, vennero però, a suo dire, “rese nulle dal ben noto carattere del Primaticcio, uomo riconosciuto sempre, per natura, per educazione, per istudio, quieto, magnanimo, disinteressato e non superbo, né geloso dell’altrui gloria: li magnifici suoi lavori poi lo mettono a coperto di ogni taccia”.

Un silenzio tombale

Quel che è certo è che, morto, così inaspettatamente, il Rosso, intorno alla sua persona, e soprattutto alla sua morte, si fece, alla corte reale, uno strano, stranissimo silenzio sulla sua figura. Come accade spesso in questi frangenti, i suoi amici caddero rapidamente in disgrazia, e i suoi nemici prosperarono.

Non mancò molto, infatti, che il suo più stretto alleato alla corte di Re Francesco, l’intemperante e mai domo Benvenuto Cellini, cadde anch’egli in disgrazia (“palese era l’odio suo”, scrive ancora il marchese Bolognini Amorini, al punto che, “stanco il Monarca di sì cattivo procedere, gli scemò di molto l’affetto che da prima aveagli dimostrato”), e fu prestamente e malamente licenziato, “con soddisfazione di tutta la Corte, che seguendo le pedate del Sovrano lo colmava di disprezzo”. Senza più rivali, sempre protetto da Madame d’Etampes (che spadroneggiò fino alla morte di Re Francesco, avvenuta nel 1547 nel Castello di Rambouillet), il “Bologna” poté così rifare le decorazioni della Reggia a suo piacimento, prendendo sotto di sé tutte le maestranze, e sostituendosi di fatto al Rosso nel suo ruolo di primo e ineguagliato pittore di corte. Tanto che inizierà, solo da quel momento, “l’epoca felice per il Primaticcio”, come la definirà il suo biografo, “che videsi liberato da ogni ingiusta persecuzione”.

Persino colui che, stando al Vasari, sarebbe stato la causa diretta o indiretta della morte del Rosso, il fiorentino Francesco Pellegrino, poté assistere, dopo la sua morte, alla pubblicazione del suo Livre de Moresques, che fu dato alle stampe da Cornelis Bos ad Anversa nel 1543, e successivamente poi ristampato dal francese Gormont tre anni più tardi. In questo modo, tutti o quasi tutti furono, o si finsero, contenti, e della misteriosa morte del Rosso non si parlò più.

4 – Fine

In questa rubrica vi raccontiamo storie, aneddoti, gossip e segreti, veri, verosimili o fittizi riguardanti l’arte e gli artisti d’ogni tempo. S’intende che ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti sia puramente casuale

La puntata precedente di questo aneddoto la trovate qua:

Chi ha ucciso Rosso Fiorentino? Arsenico e vecchi rancori alla corte del Re di Francia (Pt. 3)

Le puntate precedenti degli aneddoti sulle vite degli artisti le potete trovare qua:

Picasso e quella strana passione per il bagno

Manet, Monet e quel giudizio velenoso su Renoir

Annibale Carracci, i tre ladroni e l’invenzione dell’identikit

Quando Delacroix inventò l’arte concettuale

Il senso di Schifano per la logica e per gli affari

Gentile Bellini, lo schiavo sgozzato e il mestiere della critica

Bacon e il giovane cameriere bello come il Perseo del Cellini

Filippo Lippi, quando l’arte lo salvò dai turchi

Turner: il mio segreto è disegnare solo ciò che vedo

Renoir e il fuggitivo di Napoleone III travestito da pittore

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Renoir e la politica del turacciolo

Corot, il falso Corot e la crociata contro gli Albigesi

Tamara de Lempicka e D’Annunzio, di un ritratto mai fatto e di un amplesso mai consumato

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Di Vedova e Turcato, e di un wc intasato

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Di Rembrandt, della sua avidità e di quella strana abitudine di falsare il prezzo delle aste…

Quando Depero per poco non ammazzò Balla a pistolettate

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