Pittura lingua viva: sulla mostra in Triennale

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La mostra alla Triennale “Pittura italiana oggi” dimostra prima di tutto una cosa: la pittura italiana è lingua viva. Rovesciando e parafrasando il celebre motto di Arturo Martini, che nel 1945 denunciò la scultura come “lingua morta” (monito tragicamente avveratosi poi, col dilagare indiscriminato e spesso balbuziente della pratica installativa ovunque ripetuta), noi oggi possiamo asserire senz’altro, a discapito della acclarata sottovalutazione che il sistema dell’arte italiano mette regolarmente in atto nei suoi confronti per relegarla, un po’ masochisticamente, a fanalino di coda delle tendenze maggiormente celebrate a livello internazionale, che in Italia la pittura è al contrario viva, multiforme, contemporanea, in grado di raccontare il presente e di rinnovarsi nei propri codici interni, e anche nel proprio statuto di base. 

Lo testimoniano le 120 esperienze che il curatore, con coraggio un po’ donchisciottesco malgrado la forte rete di endorsement (i testi in catalogo di Hans Ulrich Obrist, di Bonami…) con cui sembra essersi premurato di proteggersi a priori dalle inevitabili critiche – sussurrate però a bassissima voce –, e arricciature di naso generalizzate, già palpabili nell’aria fin dalla seria dell’inaugurazione, dovute all’eccessiva bulimia della scelta, e all’altrettanto eccessiva linearità di un allestimento che, a tratti, e malgrado la fama del progettista, Italo Rota, sfiora la mancanza di fantasia nel suo ripetersi di moduli sempre uguali a se stessi e che ricacciano a tratti alcuni quadri in posizioni di difficilissima visione e altrettanto difficile impaginazione (quasi a filo di un muro esterno, dunque difficilmente leggibili e di altrettanto difficile difendibilità), ha tuttavia messo insieme con un ritmo a volte felicemente contrastante e discordante, a volte eccessivamente pedissequo nel suo alternarsi di quadri compositivamente e cromaticamente troppo simili uno all’altro per star vicini, quasi a formare delle coppie di separati alla nascita.

Marco Neri, Abitare, 2020, acrilico e vinilico su lino, cm 160×200, Courtesy A+B Gallery, Brescia. Foto Petrò Gilberti

Ma, tornando al punto: sì, grazie a Damiano Gullì, per quanto almeno ci riguarda, per avere riaffrontato il tema di un linguaggio che, benché caratteristico dell’identità italiana, quasi italiano per antonomasia, è da decenni, benché sostenuto da un mercato allargato di collezionismo ampio e strutturato in Italia e nella sua vasta e viva rete di attori “minori”, relegato a fiere di provincia e a mostre guardate quantomeno con sospetto dal sistema “che conta”. 

Nicola Verlato, Hostia, 2022, olio su tela, cm 300×176, Courtesy Fondazione The Bank – Istituto per gli studi sulla pittura contemporanea. Foto Giorgio Benni.
Alessandro Pessoli, Me and Him, 2020, olio, vernice spray, pastelli a olio, pastelli su tela, cm 200×145, Courtesy l’artista e Galleria Zero, Milano.

Manca un po’, sembra, in questa seppure vastissima mappatura, uno schema di base, un’inquadratura storica che giustifichi le singole scelte di autori già maturi, qua presenti con quadri spesso felici e fortemente significanti (pensiamo a Verlato con uno dei suoi quadri della serie “Hostia”, celebrazione della persecuzione e morte di Pasolini come martire civile, ma anche a De Grandi e Di Piazza con due felicissimi e grandi quadri di natura declinati nel loro inconfondibile stile, ad Alessandro Pessoli con una Crocefissione contemporanea sospesa tra sacralità e sacrilegio, a un rigoroso Marco Neri nella sua ricerca delle linee di astrazione nel paesaggio urbano, a una Margherita Manzelli che ripete il suo eterno modulo con modulazioni a prima vista impercettibili ma significative, a un sorprendente Coda Zabetta messo inopinatamente all’esterno, a sfidare le intemperie con la sola protezione del suo stesso linguaggio, quasi metafora della solitudine e forza del linguaggio pittorico stesso, o a un Luca Bertolo, che ci riporta i fermenti del contemporaneo utilizzando una meta-pittura che parla di se stessa e della propria storia profonda e nascosta); a cui fa da contraltare, però, una sostanziale mancanza di ordine (e questo sarebbe però, va detto, già di per sé una scelta che può anche avere un suo senso profondo, coerente dopotutto con l’impossibilità del contemporaneo di essere catalogato e ordinato in codici prefissati, nella sua straripante fluidità e malleabilità), ma anche – e questo trovo sia invece un difetto intrinseco –,di senso profondo della storia da cui questi autori sono nati e provengono.

Luca Bertolo, Grande corteo, 2023, olio e acrilico su tela, cm 250×400, Courtesy l’artista e SpazioA, Pistoia. Foto Camilla Maria Santini.

Manca, cioè, una riflessione, anche nel catalogo (e non potevano certo farla un Bonami, che di questo non si è mai occupato se non sporadicamente e quasi casualmente, né tantomeno un Obrist, ma qualcuno maggiormente calato nelle vicende del contemporaneo di casa nostra, come stiamo cercando di fare noi, e continueremo a fare nelle prossime settimane, con la nostra vasta rete di collaboratori, da questo giornale, da questi giorni in avanti, proprio a patire da questa mostra), su che cosa abbia portato questi autori fin qua, con quali compagni di strada, con che difficoltà e paletti da superare e a volte felicemente dribblare: ovvero, più nello specifico, su che cosa siano state le scuole regionali italiane (ce lo racconta con grande precisione e capacità storico-analitica nel suo bell’articolo qua, non uno storico dell’arte, ma un gallerista, Federico Rui, il che già darebbe da pensare: quando le manchevolezze degli storici del presente devono essere supplite, con attento taglio filologico, da altri loro compagni di strada), quali i rimandi tra un artista e l’altro, quali i fili che intercorrono tra una mostra e l’altra (non certo quelle di Bonami o di altri critici à la page, che mai se ne sono occupati con serietà), per portare questi autori a consolidare la propria posizione e la propria visione in un sistema complesso e ricco di leggi non scritte, di diktat, di esclusioni a priori e di cordate non sempre limpide nel loro reciproco appoggiarsi per far emergere un artista piuttosto che un altro, o un linguaggio piuttosto che un altro, spesso a scapito della vera ricerca. 

Margherita Manzelli, Senza Fine, 2023, olio su tela, cm 200×300, Courtesy l’artista e greengrassi, Londra. Foto Roberto Marossi.

Appare allora un po’ pretestuosa la scelta (anche se, concordiamo, una scelta deve pur esserci: ma forse andava fondata su dati storico-artistici, più che meramente anagrafici), di escludere artisti perché nati prima del 1960, quando altri loro quasi coetanei e di fatto compagni di viaggio, invece vi compaiono: compito dello storico del presente è stabilire delle date, ma circostanziate dai dati, dai fatti, dalle interferenze reciproche, dalle mostre fatte. Allora andava forse stabilita una data di comparsa di alcuni epi-fenomeni, per es. il “dopo Transavanguardia”, il “dopo-Nuovi Nuovi” e “dopo-Anacronismo”, più che una mera data di nascita di un autore piuttosto che di un altro. Perché è indubbio che manchino l’Officina milanese (Velasco, Frangi, Pignatelli, Petrus) e anche alcuni loro compagni di strada (Papetti, Damioli) ed anche altri più giovani, o che manchino presenze significative e difficilmente prescindibili, se si vuole fare una ricognizione storica, come Daniele Galliano; che manchi un Andrea Di Marco, benché purtroppo scomparso prematuramente, a fare da cornice ai suoi tre compagni di viaggio palermitani, o un Davide Nido, anch’egli purtroppo mancato prematuramente, ma che ha saputo rinnovare, da Milano, come pochi altri (e meglio e prima di alcuni presenti invece in mostra) il linguaggio e le tecniche stesse dell’astrazione.

E mancava, inevitabile non notarlo, tutta una generazione – a farne da capostipite un altro fuoriclasse, che piaccia o no ai guardiani del sistemino che conta, Giuseppe Veneziano – che è quella che, difficile non riconoscerlo, ha svecchiato il linguaggio pittorico portandolo sui binari del nuovo pop ovunque diffuso e ovunque riconosciuto e riconoscibile: basta guardare il consenso che ottengono molti di questi artisti su internet o le file per entrare in una mostra del solo Veneziano (tanto per fare l’esempio più eclatante, ma non è appunto l’unico), per rendersi conto che queste esperienze hanno lasciato e lasceranno un segno sul contemporaneo, e non documentarlo è quantomeno singolare. 

Nicola Samorì, Irene cura l’informale, 2021, olio su onice, cm 104×92, Courtesy Museo Civico delle Cappuccine, Bagnacavallo. Foto Rolando Paolo Guerzoni.

Il gioco delle mancanze, certo, è dopotutto cosa facile: ma criteri di scelta, nel rispetto della selezione attuata dal curatore (sempre legittimamente arbitraria), andrebbero motivate. E allora, ad esempio, temo che la mancanza di un fuoriclasse indiscusso della pittura, com’è Agostino Arrivabene, sia legata a una diffidenza di fondo verso una pittura che mantiene immutati i propri assunti di base e lo fa in maniera eccelsa, senza nostalgie rétro, benché, a nostro avviso, straordinariamente puntuale e contemporanea; mentre un altro assoluto fuoriclasse, come Nicola Samorì, appare invece presente (e difficilmente non lo sarebbe stato, avendo conquistato col suo lavoro rigorosissimo e indiscutibile importanti consensi dentro e fuori dall’Italia), proprio in quanto sentito come “più contemporaneo”, perché, amante e profondo conoscitore del linguaggio pittorico, ne attua però anche una sistematica e drammatica messa in discussione e destrutturazione, quasi una corrosione interna. È la pittura che si mette eternamente in discussione e non la pittura che si fa eccelsa senza tradire il suo linguaggio, allora, l’assunto per cui il sistema ti accetta come “contemporaneo”? Probabile, benché a mio avviso sia discutibile: la pittura, se ottima e consapevole, si mette in discussione anche quando non lo fa in maniera plateale o dichiarata. 

Mancanze, dunque, dicevamo: se il gioco dei singoli nomi è forse facile e in fondo anch’esso arbitrario, manca però, a mio avviso, e non si può non rilevarlo, anche una fetta importante di storia della pittura contemporanea: quella che abbiamo imparato a conoscere come straripante, esondante dalla tela e dal quadro. Quella che potremmo (ma non basterebbe) ridurre al fenomeno, da almeno un decennio e mezzo indiscutibilmente imperante, che proviene dalle esperienze dell’arte urbana, o street art che dir si voglia. Manca un altro fuoriclasse, in questo caso, come Ozmo? Certamente, e va detto che è difficile non notarlo, con il profluvio di artisti che sono oggettivamente meno presenti e meno pregnanti sulla scena del contemporaneo. Ma non è solo quello. Manca, ci scuserà il pur bravo Gullì, una vera visione, di fantasia e di immaginazione, delle tante direzioni su dove stia andando il linguaggio pittorico oggi – dunque anche fuori dalla cornice del quadro –, che non basta lasciare a una pur bella, ma quasi unica e a se stante, installazione di Paolo Gonzato, o a qualche altra prova di “uscita dal quadro” poco giustificate e ancor meno efficaci. La pittura oggi è ovunque: dilaga, dai muri urbani agli oggetti alle esperienze di live painting alle copertine dei cd. Forse, una mostra così ambiziosa, così importante proprio perché ridà centralità e importanza a un linguaggio stupidamente messo per anni all’angolo dal sistema in Italia, quando ovunque è da tempo – non certo da ieri – riscoperto e rivalutato, dalle fiere ai grandi musei del mondo, meritava qualche maggior colpo di fantasia e di immaginazione, qualche vivacità in più, con esperienze di pittura ambientale, di pittura live, performativa, sciamanica, esondante, di pittura fuori dalla tela, e non solo un’infilata di quadri uno via l’altro, uno via l’altro, uno via l’altro, come in un Salon ottocentesco. 

Ma, quel che conta, la pittura è viva. Sta a noi, a noi tutti, continuare a darle forza, energia, riconoscibilità, importanza, autorevolezza. Il silenzio finalmente è stato rotto. Che il dibattito abbia di nuovo inizio.

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