Iconografia dell’esistenza: l’arte universale di Keith Haring

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Omini danzanti, bambini che gattonano, cani stilizzati, figure dai contorni naïf, circoscritte da una rapida linea spessa e priva di esitazioni, dai colori vivaci e dalle fattezze semplicistiche sono i personaggi bidimensionali, strambi ed euforici che, già dal secolo scorso, diventano tratto cardine dell’estetica haringiana. Keith Haring, Radiant Vision esibisce 130 opere, provenienti da una collezione privata, al Palazzo Tarasconi di Parma, visitabile fino al 4 febbraio. Contrassegnato da una vita fugace quanto impegnata, Keith Haring, lascia un segno irremovibile nell’arte contemporanea.

Nato a Reading, Pennsylvania, l’amore per l’estetica e il linguaggio dei fumetti viene trasmessa sin da piccolo dal padre, Allen Haring, fumettista dilettante e appassionato, che avvicina Keith, già all’età di quattro anni, al disegno di personaggi ispirati a Disney e Dr. Seuss. La sua energia creativa lo spinge nel 1976 a iscriversi all’istituto di arti grafiche di Pittsburgh, che in seguito abbandona. Già nel 1978 è a New York per studiare pittura alla School of Visual Arts, che lascia sempre due anni dopo. L’inquietudine creativa lo conduce poi a portare l’arte in quei luoghi in cui essa può essere vista da tutti, può essere di tutti. «Il pubblico ha diritto all’arte […] L’arte è per tutti», scrive nel suo diario nell’ottobre del 1978.

Quello di Keith Haring è un racconto intimo, ma al contempo universale, egli è impegnato a realizzare un’arte, un linguaggio che potesse rivolgersi a tutti, nessuno escluso. O forse, proprio gli esclusi sono i protagonisti del lessico universale che Keith Haring ama raccontare.

Le sue iconografie contemporanee, “simboli primari di tutta l’esperienza umana sulla terra” come le definisce in un’intervista dell’83, sono riportate con una linea semplicistica, ma mai banale; le figure si agitano intende a svolgere azioni eterogenee ma tutte finalizzate a comunicare un messaggio. L’esigenza dialogica dell’artista è evidente già dal luogo in cui i suoi omini cominciano a manifestarsi: le metropolitane, quei nonluoghi, come li definirebbe Marc Augé, che sono funzionali alla permanenza temporanea e fugace della vita umana, privi di identità di per sé.

Calzante, in questo senso, risulta lo spazio espositivo: le sale della convivialità estiva o piano interrato del palazzo Tarasconi, suggestivo poiché rievoca quell’ambiente suburbano determinante nell’estetica di Haring. Allestite attorno al perimetro interrato sono le numerose litografie (tra cui LUDO Complete suite 1-5), le serigrafie (Growing #3, 1988; la serie di Apocalypse 1-22 del 1988;), le acquetinte su carta, i manifesti, i “Radiant baby”, le opere esposte nelle più famose gallerie di New York, le fotografie del Pop shop, i prodotti commerciali da lui realizzati, insomma tutta la sua fervida, seppur breve, produzione artistica che ne racconta l’esistenza, gli anni, le filosofie e gli ideali.

È così che si incorre in Free South Africa, una serie di tre acquetinte su carta del 1985, che diviene manifesto del movimento anti-apartheid, impegnato a porre fine alla segregazione razziale e alla privazione del diritto di voto per i cittadini neri. Nell’immagine da lui prodotta, egli cerca di invertire la realtà: un colossale uomo nero si ribella alla prepotenza dell’uomo bianco, che ha un bersaglio disegnato sul petto. La consapevolezza della potenza iconografica spinge l’artista a realizzare Untitled (Apartheid) su spille, magliette e poster da diffondere durante occasioni quali concerti o manifestazioni per sensibilizzare gli americani e promuovere il cambiamento sociale. Sempre in mostra sono i pittogrammi che realizza nel 1982 per la denuclearizzazione. Sostenitore dei diritti gay, Keith Haring, è anche l’autore di un’opera utilizzata dal servizio postale degli Stati Uniti per il timbro di vidimazione commemorativo in onore del 20° anniversario dei moti di Stonewall.

Continuando nel percorso, ci si imbatte nei prodotti commerciali del suo Pop Shop. La passione per l’universalità e la popolarità dell’arte sociale lo spingono ad aprire un negozio in Lafayette Street, un’esperienza artistica immersiva, in uno spazio architettonico tempestato di omini e pittogrammi. L’attenzione ai più giovani, che l’artista definisce “la fiamma che illumina il nostro futuro” è evidente nella serie The story of red + blue: la storia di un’amicizia firmata Haring nel 1989, in cui su disegni monocromi di volti, animali e forme, campeggiano i colori del rosso e del blu, per poi, nell’ultima rappresentazione, fondersi in un nuovo colore: il viola.

Il lavoro di Haring è straordinario poiché veicola, per mezzo di uno stile apparentemente ingenuo, le idee democratiche e i principi dello stesso artista. Le figure qui in mostra, sono manifesti politici a sostegno del disarmo nucleare, dei diritti civili, della lotta contro l’AIDS, (aderì al movimento Act up per concretizzare la sua protesta in azione civile) sono racconti sociali ed esistenziali, veicoli di speranze per un futuro migliore. Come un presagio della sua fine, nel 1986, Haring realizza Medusa, acquatinta su carta, alta quasi un metro e mezzo e lunga più di due: è la più grande stampa realizzata dall’artista. Haring riempie il foglio bianco di figure frenetiche, agitate, irrequiete unite a un corpo senza testa. L’attualizzazione del mito greco di Medusa diventa, in Haring, simbolizzazione di un male universale che colpisce l’America in quegli anni: l’AIDS. Quella stessa malattia che gli verrà diagnosticata solo due anni dopo, nel 1988 e che troncherà l’esistenza fugace ma preziosa dell’artista americano a soli 31 anni. Nel 1990 s’ interrompe, così, la storia di un giovane attivista che ha messo nell’arte la sua e la vita di molti.

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