Hayez, Torino celebra il pittore del Risorgimento e del melodramma

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Era Francesco Hayez un pittore di corte? Intendiamoci però: della nuova corte borghese, rivoluzionaria e progressista che aveva spiantato in Europa (anche in Italia) l’Ancien Régime? Si, in questo senso lo era stato. Nel senso, cioè, che di tutti i nuovi poteri del secolo nuovo dopo il Medio Evo, l’Ottocento, l’artista era stato amico, confidente e sodale ma, soprattutto, era stato testimone e demiurgo, in arte, del secolo romantico e dei suoi eroi tipici. 

Hayez era veneziano e milanese, ma è Torino che lo ricorda e lo celebra, in una esauriente mostra alla Galleria d’Arte Moderna, da oggi, 17 ottobre 2023, fino al 1° aprile 2024, con oltre cento opere in esposizione. 

Francesco Hayez, Studio per “La Maddalena penitente”, 1833 ca., matita e biacca su carta, 210 x 165 mm
Venezia, Fondazione Musei Civici di Venezia, Gabinetto dei disegni e delle stampe, Ca’ Rezzonico

Non per indebita sottrazione è il capoluogo sabaudo che si intesta l’evento, poiché lo fa giustificando l’indovinato titolo della rassegna, composta da dipinti e disegni (questa è la peculiarità) che provengono tuttavia dagli archivi milanesi, veneziani e romani, oltre che dalle altre provenienze private: “L’officina del pittore romantico”. 

E cioè, nell’intenzione programmatica desiderata dai curatori, Fernando Mazzocca ed Elena Lissoni, vi è la volontà con questa mostra di rendere per la prima volta al pubblico la visione e la sensazione del fare artistico di un autore immolato da sempre, per tutti, alla mera contemplazione della perfezione compiuta dell’opera. Scopo dichiarato e ottenuto dell’esposizione torinese è invece la restituzione al pubblico, per la prima volta, degli elementi di prova del processo creativo, dei ripensamenti e delle varianti in corso, dei bozzetti e degli schizzi preparatori, del lungo e faticoso travaglio di labor limae che anche in un artista dagli esiti definitivi e perentori, per il suo tempo e per l’eternità, come Hayez, tuttavia vi fu. E tale tratto è precipuamente descritto nell’allestimento della Gam a Torino, da qui ai prossimi mesi. 

Lo si nota a pieno nell’esame dell’immensa tela, di quasi quattro metri per sei, dipinta in un arco di tempo lunghissimo, tra il 1933 e la data ultima di consegna, il 1950, al Palazzo Reale di Torino per l’appunto, dal titolo, diremmo oggi, wertmulleriano: La sete patita dai primi crociati sotto Gerusalemme.

Un dipinto la cui ponderosa solennità è quasi interamente documentata dai disegni d’archivio provenienti dalla Pinacoteca di Brera, e che si impone al visitatore come un manifesto curatoriale, anzitutto, ma perfettamente omologato al sentimento generale che possiamo oggi desumere sulla vita dell’artista e l’opera sua. Il quadro, una sorta di tavola illustrata di tema storico finissimamente fitta di storie personali e situazioni ambientali, è allo stesso tempo metafora della cronaca del tempo, fieramente (e retoricamente anche, certo) risorgimentale, tanto da ricevere gli elogi formali e pubblici di Giuseppe Mazzini. Ma è anche evocazione melodrammatica della temperie operistica verdiana, citazione intertestuale dei poemi contemporanei di Tommaso Grossi e, nondimeno, è ammiccante alle prime epiche in prosa poetica del Manzoni. Con quest’opera, e con tutti i perfezionamenti che ha subito nel corso del pieno svolgimento dell’ultima epopea storica nazionale, Hayez ha preso posto tra gli spiriti magni dell’Ottocento e vi si è fissato imperituramente. Come se il Canova lo avesse scolpito. E, d’altra parte, proprio il maestro di Possagno decantava il futuro maestro di Brera come colui che, in pittura, avrebbe resuscitato la gloria della bellezza dell’arte italiana (come lui, sottinteso, aveva fatto nelle arti plastiche, si capisce).

Dall’officina del pittore romantico sono uscite rombando tutte le espressioni di un secolo, intinte nella composta e solenne grazia neoclassica delle origini, contaminate di suggestioni realistiche, fino al limite dell’icasticità di Carolina Invernizio (ben oltre il Manzoni), in una prosa pittorica da illustratore di romanzi d’appendice, ma toccata dalla grazia che elargisce una tavolozza di ineguagliabile esito, di struggente armonia drammatica.

La sequenza delle sale è in crescendo, come in un libretto operistico, per la perizia drammaturgica, appunto dei curatori: l’entrata sulla scena dell’arte coeva alla Restaurazione e ai primi moti insurrezionali, tra Roma e Milano, lasciata la nativa Venezia e le delicatezze tizianesche, alla prova della riproduzione mitografica della storia e della Bibbia, con sentori ancora vivi di apollineo neoclassicismo, anche nelle scene crude del Laocoonte, ma ben presenti nell’Atleta trionfante e nell’Amorino

Laocoonte, figlio di Priamo e sacerdote di Apollo, vittima, coi figli, della vendetta di Minerva, per cui partirono due grossi serpenti da Tenedo per a vvinghiarli a morte nelle loro spire, 1812
olio su tela, 175 x 246 cm
Milano, Accademia di Belle Arti di Brera

Poi il passaggio definitivo nella capitale meneghina, e l’affermazione di un inequivocabile afflato romantico, a cominciare dall’autoritratto trentenne, in blusa e berretta marinara, dallo sguardo provocante e provocatorio. È l’inizio della grande stagione dei ritratti, unico momento creativo di totale abbandono all’istinto e al genio, con risultati di commovente, sorprendente capacità di caccia all’anima dei soggetti. 

Ed è il momento, fra i più alti, di una interpretazione della Maddalena che renderebbe penitente anche il più reprobo dei traditori di mogli, una figura femminile che rapprende negli occhi e nell’espressione della bocca la sintesi di ogni peccato e di tutte le ansie di salvezza. 

Poi si passa attraverso la parata della grande pittura civile, che riguarda ogni settore di quella che oggi sarebbe la cronaca: dalla nera alla rosa, dalle congiure ai primi, appassionatissimi baci fuggitivi. Inclusi quelli dati e ricevuti dalle modelle che il pittore selezionava con attenta passione, prima che attratto dal mero dato tecnico. Da Giulietta a Imelda, come recita uno dei titoli delle sillogi del catalogo della mostra, Hayez ha fatto e ci ha consegnato incetta di baci terminali, sospesi sopra il filo tenue e teso di una promessa eterna, di un giuramento ineludibile di ritorno, infinitamente prolungati.

Ma vale la pena di raggiungere Torino da qualunque parte del Regno per osservare da vicino e dal vivo i dipinti che riproducono il firmamento onirico originario dell’artista, quelli delle incantevoli scene veneziane, che non sono altro che frammenti occasionali di ogni vita, ma nella fissità dell’olio sulla tela divengono verità assolute e quasi rivelazioni: Il consiglio della vendetta e Accusa segreta, entrambi titoli degni, come già detto, di un feueilleton, prima che di un opera lirica, sono capolavori di bellezza totale, formale, simbolica, tecnica, lirica, compositiva e sentimentale.

Hayez. L’officina del pittore romantico, Installation View, ph. Giorgio Perottino

Non sono da meno i nudi, pudichi anche quando rasentano l’impudicizia, perfino per l’epoca, che risentiva non poco del passato libertinaggio. E i ritratti di ispirazione orientale, con odalische svelate in pose osè, ma sempre conservatrici di una purezza inarrivabile, almeno nell’intenzione pittorica. 

In conclusione del percorso il finale travolgente, nella teoria di ritratti e autoritratti senili che sfila a colpi di grancassa e battute in levare: dall’intensità erotica delle ultime bagnanti ai volti ipnotici e terrifici di giovanette in meditazione che rinviano a maniere profetiche, quasi contemporanee, alla imperiosa ieraticità dell’Ecce Homo, allo scandaglio psicologico delle melanconie, in quei volti di donna che alla fine della lunga vita di Hayez pare divengano proiezioni riflesse del suo stesso stato d’animo, ormai vecchio e stanco, sebbene ancora animato dalla forza e l’energia di un artista dotato di una virtuosa e non comune doppiezza: apollineo e dionisiaco che vibrano nella stessa mano, in una miscela simultanea di colore, di forma e di luce. 

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