Gaber e Jannacci, due docufilm per riscoprire la libertà della musica

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Vent’anni senza il Signor G e dieci senza Jannacci: si incrociano i destini di questi due grandi artisti, e per riscoprirne il genio e la poesia sono usciti di recente due docufilm – Io, noi e Gaber e Enzo Jannacci: Vengo anch’io –, che dopo un breve passaggio nelle sale cinematografiche ora si possono guardare su Rai Play e su Netflix.

I due artisti erano amici intimi nella vita e sul palco, accomunati dalla stessa sensibilità artistica e dal gusto di rompere gli schemi, raccontando gli “ultimi” con le parole della gente, con testi e musiche che sono molto più di canzoni. Vite e carriere, sempre intrecciate, di due dei più grandi artisti milanesi del Novecento.

I due docufilm sono sicuramente di ispirazione e invitano a conoscere questi due grandi artisti e ad entrare nel loro mondo. Poetici, ironici e visionari, Gaber e Jannacci si completavano a vicenda. Più rigoroso e sofferto il genio di Giorgio, più stralunato e fulmineo quello di Enzo.

Il film dedicato a Jannacci ci porta a bodo di un vecchio tram in una Milano senza tempo, tra ieri e oggi, per restituire, grazie ad uno straordinario materiale di repertorio, spesso inedito, e alle testimonianze di amici e colleghi, un ritratto di quello che Paolo Conte ha definito: “il più grande cantautore italiano”. Comincia il racconto Roberto Vecchioni che ha descritto Jannacci come “l’unico grande genio musicale che abbiamo avuto in Italia”

E poi è lo stesso Jannacci che ci accompagna e ci fa rivivere i momenti più importanti della sua carriera, le collaborazioni con l’amico Giorgio Gaber, con Dario Fo, l’incontro con Cochi & Renato, ma anche le avventure sui palchi, teatri, cantine e quel mestiere di medico che forse gli sarebbe piaciuto seguire di più. Tutto raccontato in prima persona, attraverso un’intervista inedita, rilasciata nel 2005 proprio a Giorgio Verdelli (regista del docufilm).

Enzo Jannacci col figlio Paolo.

Oltre alla narrazione dello stesso Jannacci e a spezzoni d’epoca, ci sono le testimonianze del figlio Paolo (“trasudava un’energia ambigua, divertente, magica”), Paolo Conte, Vasco Rossi (“spiccava per la sua particolare vena ironica, amara e feroce, per me era un mito”), Paolo Rossi (“Enzo per me era un padre, uno zio più importante del padre, a volte il fratello minore”), Diego Abatantuono, Cochi Ponzoni, Massimo Boldi. Nino Frassica (“è avanti anche oggi con le cose che ha fatto ieri”). E ancora, l’omaggio di J-Ax, i ricordi di Claudio Bisio, Dori Ghezzi, Dalia Gaberscik, Paolo Tomelleri, Gino & Michele, del fotografo Guido Harari, del suo regista abituale Ranuccio Sodi e di Fabio Treves ma anche gli attestati di profonda stima di Paolo Dal Bon (Presidente della Fondazione Gaber), Valerio Lundini ed Elio. Il racconto che più commuove è quello intimo e struggente del figlio Paolo davanti al pianoforte del padre, con cui visse un lungo sodalizio artistico.

Un ritratto unico e appassionato che riporta alla luce le mille sfumature di un mito che a dieci anni dalla sua scomparsa continua a sorprendere ed affascinare con la sua cifra unica, stralunata e surreale.

Il film sul “signor G” inizia nella sua casa milanese, dove la figlia Dalia Gaberscick (il vero cognome di Gaber) ci offre un ritratto inedito di questo papà affettuoso e stimolante.

Gaber nasce a Milano il 25 gennaio 1938, la poliomielite contratta da bambino gli causò una paresi alla mano sinistra e proprio per riacquistare l’uso parziale della mano cominciò a suonare la chitarra che per fortuna non lasciò più.

Il docufilm, girato tra Milano e Viareggio, luoghi del cuore dell’artista, attraversa tutte le fasi della sua carriera, dai primissimi esordi nei locali di Milano al rock con Adriano Celentano, al sodalizio artistico e personale con l’amico Jannacci agli iconici duetti con Mina.

Dagli anni della popolarità televisiva al teatro, con l’invenzione del teatro-canzone, piena espressione del suo impegno politico e culturale, insieme a Sandro Luporini, co-autore dei suoi testi teatrali tra cui spicca Il Signor G, in cui mette in scena uno dei suoi personaggi più iconici (Luporini è tra l’altro anche ottimo pittore, tra i fondatori del movimento della Metacosa, ndr). Attraverso la voce di familiari e amici, tra cui la moglie Ombretta Colli, Milani (regista dell film) traccia un ritratto intimo del cantautore. Lo stesso Luporini, amico fraterno, lo definisce affettuosamente “un piccolo borghese assetato di novità e un instancabile lavoratore”.

Giorgio Gaber e Mina nel 1970.

Il film ripercorre, quindi, la carriera musicale di Gaber partendo dalla fine degli anni Cinquanta, per arrivare alla complicità con Enzo Jannacci, insieme al quale Giorgio dà il via al cabaret milanese.

E dal cabaret e dai dischi popolari di grande successo, come Trani a gogo, Goganga, Porta Romana, Gaber passa negli anni Sessanta alla televisione, dove diviene rapidamente uno dei personaggi più noti. Nel 1970, però, gira le spalle alla TV e si getta a capofitto nel teatro, la televisione gli sta stretta, si sente imbrigliato dalla censura, ha bisogno di maggiore libertà. Nasce così il signor G, Gaber sul palco mette a nudo sé stesso, con una mimica inimitabile e soprattutto affrontando tematiche esistenziali e temi politici legati alla sua generazione. Memorabili gli spettacoli come Far finta di essere sani, Anche per oggi non si vola, Libertà obbligatoria, Polli d’allevamento, Anni affollati, Il caso di Alessandro e Maria, Il Grigio.

La mia generazione ha perso rappresenta un po’ il giudizio finale di Gaber sul percorso politico compiuto dalla sua generazione, quella che ha fatto il ’68 senza però riuscire a realizzare l’ambito sogno di cambiare il mondo. Ma quella generazione ha veramente perso o, invece, noi tutti continuiamo in qualche modo a rincorrere la libertà, l’eguaglianza, la pace, il riconoscimento dei diritti per tutti gli uomini?
Il messaggio che Gaber ha voluto trasmetterci viene ben sintetizzato nelle parole con cui Riccardo Milani conclude il film: “Ci ha insegnato come appartenere a una comunità, come essere qualcosa o qualcuno, avere un ruolo, non essere un numero e mai un pollo d’allevamento”.

Ho letto le critiche di illustri colleghi in questi giorni in cui film sono andati in onda in TV, e se sono in parte d’accordo su quello che dice il giornalista e critico musicale Enzo Gentile, non mi trovo molto in sintonia con quello che scrive invece Aldo Grasso sul “Corriere della sera”. Ma andiamo con ordine: quello che Gentile, che ha conosciuto personalmente i due protagonisti, lamenta ai due docufilm è la poca incisività degli intervistati, testimonianze che per lui risultano ovvie e ripetitive e su questo non mi pronuncio, vero è che a volte gli intervistati non li avevano proprio conosciuti Gaber e Jannacci, ma gli erano solo passati accanto. Sono d’accodo invece con Enzo che nel film su Gaber si staglia come un gigante la figura di Sandro Luporini, dice Gentile “uno che non ha mai parlato e qui con le sue parole illumina e giustifica (quasi) tutto”.

Di parere esattamente contrario Aldo Grasso che preferisce il primo Gaber, per intenderci quello di Ciao ti dirò, Goganga, e La ballata del Cerruti, che deifinisce folle, romantico, ironico e sentimentale. Mentre non ama i testi creati con Luporini, del teatro canzone e del Signo G, che definisce ideologici. E su questo non sono proprio d’accordo, trovo che Gaber interpretasse quei testi con il trasporto e l’energia necessaria (cosa che riconosce anche Grasso), e che nelle parole di Luporini si trova ancora la forza necessaria per uscire da un’impasse culturale e artistica che la nostra epoca sta vivendo. Trovo geniale il testo di Io non mi sento Italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono o dell’intramontabile La libertà:

“…Vorrei essere libero come un uomo / Come l’uomo più evoluto che si innalza / con la propria intelligenza / e che sfida la natura con la forza / incontrastata della scienza… / Con addosso l’entusiasmo di spaziare / senza limiti nel cosmo / è convinto che la forza del pensiero / sia la sola libertà. / La libertà non è star sopra un albero / non è neanche un gesto un’invenzione / la libertà non è uno spazio libero / libertà è partecipazione…”.

Le nuove generazioni possono ancora riconoscersi in questi testi e in quell’energia.

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