A Genova in mostra il genio di Artemisia Gentileschi. Finalmente rivalutata

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Cinquanta opere provenienti da tutta Europa, un inedito mai uscito da Casa Buonarroti, documenti preziosi e rarissimi, un confronto interessante con il celebre – ma meno di lei – padre, insomma una mostra che si annuncia strepitosa. E cosa si evidenzia, senza scampo, nelle recensioni? Lo stupro, il processo e i dettagli pruriginosi.

Un giorno, forse, il mondo imparerà a parlare di Artemisia Gentileschi a prescindere dalle sue vicende biografiche. Così come parla del Van Gogh pittore prima che del Van Gogh suicida e del Max Ernst surrealista prima che del Max Ernst fissato col sesso. Chi scrive – voi lo sapete, la mia rubrica qui lo chiarisce benissimo – ama le storie degli artisti e ama sviscerarne i segreti, guardare dal buco della serratura e abbassare un po’ le creste ai miti. Ma c’è luogo e luogo. C’è il gossip e c’è la storia dell’arte. Artemisia Gentileschi per la storia dell’arte (no, non solo quella delle donne) è una figura fondamentale: la sua pittura calda e pastosa, la sua luminosità inventata prendendo Caravaggio – imprescindibile – e stendendoci sopra come un velo morbido, l’angolazione unica del suo sguardo sulle cose, le sue eroine muscolose come valchirie hanno imposto una svolta al Barocco. Ed è questo che sostanzialmente racconta la mostra in programma a Palazzo Ducale dal 16 novembre al 1° aprile, ricca e divisa in dieci sezioni cronologiche che permettono di orientarsi bene nella vicenda artistica di questa signora del pennello.

Susanna e i vecchioni, 1610

C’è la Susanna e i vecchioni del 1610, dipinta dalla diciassettenne con la maturità di un grande pittore (ahimè, qui il maschile si impone) di storie, con quella figura femminile che troneggia immensa al centro della tela, scultura di carne intessuta di luce, mentre la parete di pietra, alle sue spalle, rende ancora più incombenti i due uomini che vi si affacciano minacciosi. Orazio Gentileschi, orgoglioso papà – il loro rapporto sarà complesso, ma della pittura della figlia lui si dichiarerà sempre fiero – non fa nemmeno il gesto di spacciare per proprio quel capolavoro, giusto così, per procacciarsi qualche commissione in più in quella Roma che già lo ama e in cui è considerato uno degli artisti più importanti (lui a braccetto col Merisi, amici e compagni di scorribande, fino ai versi osceni appesi per la città contro Giovanni Baglione). E chissà se guardandola avrà colto il disagio della ragazza ritratta, il volto schifato, tanto diverso da quelle Susanne un po’ “gattamortesche” che fingevano di schermirsi e intanto lasciavano scivolare via gli indumenti (o addirittura dischiudevano sornione le gambe, come quella di Tintoretto del 1557). Del resto, all’epoca della Susanna, Agostino Tassi ronzava già intorno alla giovane pittrice – incaricato da papà di insegnarle la prospettiva – e si preparava all’aggressione per cui lei sarebbe stata per lo più ricordata.

Giuditta e Oloferne di Artemisia Gentileschi, Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte

E c’è anche la Giuditta che decapita Oloferne, a Genova, quella del Museo Nazionale di Capodimonte (pressoché identica a quella degli Uffizi, datata qualche anno più tardi), dove l’eroina biblica e l’ancella si accaniscono contro il generale assiro schiacciandolo nel materasso con il peso dei loro corpi. In mostra è messo a confronto con Giuditta e l’ancella con la testa di Oloferne, dipinto degli anni Venti del Seicento da Orazio Gentileschi (dunque più tardo), che preferisce mostrare le conseguenze della decapitazione che non l’azione. Più interessante, secondo me, è confrontare il lavoro di Artemisia con la Giuditta di Caravaggio del 1602. Merisi, qui, congela il gesto, quasi tema che quella scena cruenta possa distrarre lo spettatore dal perfetto gioco luministico. Giuditta tiene le distanze, decapita Oloferne – se così si può dire – in punta di forchetta, senza rischiare di sporcarsi la camicetta candida; l’ancella è una figurante e il sangue è uno schizzo solido, corallino. Così diverso da quello che sgorga dal collo dell’Oloferne di Artemisia: liquido, copioso fino a intridere il materasso e a darci la sensazione del suo odore ferruginoso. 

Se il padre la ritrae come Sibilla (un’Artemisia scorciata, obliqua, che evidentemente le piace e che lei riprenderà in maniera quasi speculare nel suo autoritratto più celebre, quello come Allegoria della pittura), è lei modella di se stessa nell’Allegoria dell’inclinazione, che esce per la prima volta da Casa Buonarrorti per questa mostra. Lì Artemisia sembra divertirsi nel travestimento, come un’avveniristica Cindy Sherman barocca, e si ritrae completamente nuda (il drappo azzurro sarà aggiunto dopo) mutando anche il colore dei capelli in un biondo mielato. 

Giuditta e la sua ancella con la testa di Oloferne

Completa la documentazione la ricostruzione di un affresco realizzato a quattro mani da Orazio Gentileschi e Agostino Tassi. Quasi a voler spiegare perché avesse libero accesso a casa sua l’uomo che l’avrebbe stuprata (“lo smargiasso” negli ambienti romani), che l’avrebbe ingannata con una finta domanda di matrimonio, che l’avrebbe umiliata e fatta infuriare al punto di farsi denunciare e di far scatenare uno dei processi più famosi del Seicento, con la vittima le cui mani vengono straziate nella tortura della Sibilla e il colpevole – condannato all’esilio – che finisce a scorrazzare per Roma indisturbato. Lei, poi, si libererà del marito, impostole per salvare la faccia dopo lo scandalo, e si inventerà una sfolgorante carriera per le corti d’Europa. 

E visto che di Tassi si sono perse completamente le tracce nella storia dell’arte, era proprio necessario portare a Palazzo Ducale le sue marine e i suoi capricci? (Così come gli atti ufficiali del processo per stupro del 1612, del resto, che però – lo ammetto – sono una documentazione preziosa).

Interessante che tra i contributi in catalogo (Skira) ci sia un testo di Pietrangelo Buttafuoco, che nel 2016 fece infuriare Michela Murgia con il suo romanzo La notte tu mi fai impazzire, gesta erotiche di Agostino Tassi, pittore. Una scrittura travolgente e corrosiva in cui però, in effetti, lo stupratore dimenticato dalla storia dell’arte usciva un po’ troppo come un seduttore.

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