Robert Gligorov: “Fare arte? È un’esigenza vitale per ingannare la psiche e la paura della morte”

“Sono un ricercatore della mia identità di persona, di intellettuale e di corpo artistico sociale attivo nel mio tempo” Con queste parole Robert Gligorov esprime il suo “essere” artista e uomo, mai domo, aperto alla continua ricerca espressiva e proiettato costantemente verso il futuro.“Uno nessuno e centomila”: artista visivo, musicista, produttore, atleta, fotografo, illustratore, chimico, Gligorov sembra avere molteplici identità, plurime facoltà realizzative ed interpretative, con un immaginario che spazia su più fronti, da quello teatrale, a quello sociale, alla citazione, alla provocazione, non finalizzata semplicemente allo scandalo, ma volta a “smuovere le menti”. Una passione, quella per l’arte che, come ci racconta lo stesso artista, entra nella vita stessa: “fare arte non ha orari: è un’esigenza vitale per ingannare la psiche, ingannare la paura della morte ed evitare un vuoto esistenziale con cui fare i conti. Ho sempre temuto il silenzio e i momenti morti”.

Buongiorno Robert, inizierei dalla fine, ossia chiedendoti della tua mostra in crrso, intitolata: Backbone Crossing Ratio, che si è aperta da poco a Todi presso la Sala Delle Pietre del Palazzo del Popolo di Todi. Il progetto è promosso dal Comune di Todi e prodotto in partnership con la Galleria Giampaolo Abbondio. Ci spiegheresti di cosa si tratta?

È da un po’ che si stava pensando e forse ripensando ad una mia personale a Todi; in un primo momento avrei dovuto esporre in esterno nella piazza principale e un po’ ovunque; poi per una serie di problematiche la cosa è stata rinviata e man mano che il tempo passava cambiavano le idee adeguandosi a spazio e luogo. Il Comune ha proposto la Sala delle Pietre, una delle loro sale più prestigiose per un mio intervento e qui il progetto è di nuovo cambiato. Il making off della mia personale è forse più ricco di spunti e idee che forse la mostra stessa. Non ho un luogo ideale dove esporre, sono molto attratto dalla sfida di uno spazio in esterno per mettermi alla prova e certamente anche gli interni mi sollecitano nella creatività. Forse il luogo meno stimolante è una galleria.

La prima cosa che colpisce in questi paesi medievali è la loro sontuosità e volume d’aria. Sono enormi, maestosi e carichi di storia. Questa cosa aiuta molto un artista contemporaneo perché il contrasto tra il linguaggio di oggi e il passato fa risaltare l’opera. Abbiamo tenuto nascosta l’idea fino all’ultimo perché le idee, a mio avviso, raccontate o documentate sui mezzi d’informazione, tolgono quell’aspetto primigenio che un’opera dovrebbe avere ; la sorpresa, l’inaspettato, il cortocircuito o come si dice nel cinema il twist. Sono fortunato perché Giampaolo Abbondio con cui collaboro da oltre 20 anni , mi ha sempre dato carta bianca senza pormi limiti o ammiccamenti al mercato e questo per un artista situazionista come me è la condizione base.

Senza rivelarti anche in questa situazione l’idea la potrei sintetizzare nei termini in cui il pensiero immagina e chi ha la possibilità di visitare la mostra “Backbone Crossing Ratio (aperta fino al 4 luglio, ndr) ha un privilegio di esclusività dell’esperienza. Anche la parte esterna del Palazzo è parte integrante della mostra e ti accenno all’idea. Ho scolpito delle pepite cromate/dorate con diverse forme geometriche e queste pepite sono state incastonate sulle 3 pareti esterne del Palazzo del Popolo.

Camminando nella Piazza vieni catturato da uno scintillìo che si spegne e si accende a seconda del riflesso solare nei vari momenti della giornata; certe pepite e certi riflessi si attivano come costellazioni di stelle che si accendono e che muoiono. Questa installazione silente ma che ti cattura e ruba lo sguardo valorizza molto la struttura. Non hai idea di essere di fronte ad un’opera d’arte ma di fronte a qualcosa che prima non avevi visto e che ti incuriosisce. Questo è quello che intendo per fare arte oggi: l’opera e il luogo convivono in una giunta propositiva e stimolante e non decorativa forzata o ancor peggio fuori luogo.

Robert Gligorov Backbone Crossing Ratio Palazzo del Popolo esterno con pepite particolare

Sul volume della Sala delle Pietre, data la grandezza e l’altezza (profonda 30m e alta 15m) mi è stata subito suggerita dalla mia testa l’idea di proporre un’esperienza. Un percorso iniziatico, meditativo più che un oggetto tout-court artistico. Tende enormi in un numero infinito e dopo un percorso obbligato si accede ad uno spazio/dimensione metafisico, un luogo più intimo dove il riflesso della nostra immagine e dell’opera ci mette a confronto o a disagio nel nostro senso emotivo per cui siamo ciò che siamo /esistiamo.

Credo che il compito dell’arte sia quello di coinvolgere il mondo non tanto in un’ammirazione del fare dell’autore ma nel sentirsi coinvolti nel processo della stessa mostra e migliorare la percezione che si ha della realtà e togliere per quanto possibile il velo che abbiamo dalla nascita davanti ai nostri occhi.

La tua narrazione espressiva ha sempre spaziato da molteplici linguaggi e medium: dalla performance, alla pittura, alla fotografia, all’installazione, al video, alla musica. Con quali di queste espressioni ti senti maggiormente in sintonia e tu che artista ti consideri?

Per molti anni ho avuto sempre un po’ di disagio nel definirmi artista. Ma pensandoci meglio è difficile definire un operatore dell’immagine o di idee nel mondo dell’arte. Sembra il termine, sostantivo più idoneo/immediato. Quindi chiedo scusa per l’arroganza ma questa sensazione di cautela non ce l’ho più. Oggi all’età di 64 anni mi sento sufficientemente spudorato per definirmi artista anche perché, da quanto mi ricordo di me stesso, sette giorni su sette io non faccio altro che creare oggetti, opere, disegni, modellini… e senza avere un committente. Se vengo invitato per una mostra/evento ecco che cambio completamente modalità e tutto il mio fare artigianale quotidiano viene meno. Vengono coinvolti tecnici, scenografici, artisti, musicisti, scrittori, curatori… tutti quanti coinvolti in un unico progetto che parte da una mia idea che poi diventa di tutti, perché è un lavoro collettivo ed anch’io divento spettatore. La differenza tra un grande artista e uno mediocre sta in due cose: la prima è la scelta su che cosa puntare e la seconda la cura dei dettagli.

Penso di non essere un artista autoreferenziale ma, come dice Platone, alla fine non inventiamo nulla che è tipico, ma semplicemente ricordiamo un’idea o discorso che già conoscevamo. Quindi attingiamo da un bacino il nostro corollario di idee che poi faranno il DNA del nostro corpo di artista.

Robert Gligorov Pizza Tatoo

Quando un quadro, un attore, una canzone o uno sport ci piacciono, è perché fanno parte di noi e quello che ci somiglia lo prendiamo. Sono un ricercatore della mia identità di persona, di intellettuale e di corpo artistico sociale attivo nel mio tempo. Non ho un media ideale, sono tutti nelle mie corde e funzionali ai miei progetti.

Nella tua vita prima di dedicarti prevalentemente all’arte visiva, hai fatto l’atleta, l’attore per vari film (Deliria di Soavi, Murder Rock di Fulci, ecc.) il chimico, l’illustratore, il fotografo, hai realizzato numerose copertine per CD di musicisti come i Bluvertigo, che hai scoperto e di cui sei stato anche produttore, Gino Paoli, Zucchero e Sting. Presumo siano state tutte esperienze importanti ed interessanti, ma cosa ti ha spinto a differenziare la tua attività su vari fronti invece di concentrarla solo su aspetto creativo?

Ho avuto la fortuna di aver viaggiato molto da bambino e di aver vissuto in realtà sociali molto diverse. Dal mio paese socialista (ex Jugoslavia) che all’epoca era un regime con le sue regole rigide per poi confrontarmi con la cultura occidentale di vari paesi. Questa possibilità mi ha messo di fronte a degli ostacoli secondo il periodo della mia vita sempre diversi, stimolanti e sfide per autodeterminarmi. Soprattutto nello sport. Sono stato da sempre un’atleta fanatico della disciplina tra atletica leggera e ginnastica per poi approdare ai tuffi dalla piattaforma di 10 metri. Quel periodo, delle piscine mi ha dato conforto e anche un ruolo nella società.

Nella disciplina artistica, guardando con gli occhi di oggi, mi rendo conto che non era tanto la gara o il consenso l’obiettivo finale, ma era la costruzione di un atleta agonista. Questo processo è molto simile alla costruzione di un’identità artistica, solo che la materia da plasmare era diversa: la mia psiche con il mio corpo. Di questo non mi rendevo conto allora. Attorno ai 16 anni è esplosa in me la curiosità e la voglia di conoscere e frequentare il mondo del fumetto. Come nei tuffi mi sono lanciato, anima e corpo in quel mondo. Compravo fumetti, facevo viaggi per conoscere disegnatori, copiavo i migliori disegnatori di sempre, prima come lettore, poi come imitatore e poi come disegnatore, una nuova sfida mi si parava davanti: disegnare. Ero negato, nonostante sentissi di non esserlo.

Copertina del libro <em>The Illustrated Lyrics<em>

Con la mia persistenza e disciplina e attitudine sono diventato un ottimo disegnatore, ho pubblicato vari albi con Albin Michel in Francia, il libro The Illustrated Lyrics con Sting edito da Rizzoli in Italia e I.R.SBooks nel mondo; sono diventato un professionista guadagnandomi da vivere con il fumetto. Da lì in poi non mi sono mai fermato nello studiare, perfezionare il disegno, la pittura e la scultura e così via. Anche in questo caso, oggi lo vedo meglio, non era il fumetto che mi interessava, mi interessava il media e sentivo di poter essere un protagonista.

Lo sport passava in secondo piano (solo per un certo periodo, anche perché dopo i 40 anni è esploso un altro amore nella mia vita ed è la passione per il tennis). Si prospettava anche una possibilità professionale nel mondo del disegno, dell’illustrazione, ma da li a diventare un professionista non è facile, avrei tanti aneddoti da raccontare ma non adesso.

Come un Bamby che si perde nella foresta annusando fiori, rincorrendo farfalle, tuffandosi in acque fresche, mangiando more, giocando con compagni incontrati per strada mi sono imbattuto nel mondo del cinema e di nuovo, io come protagonista, non più come atleta ma come maschera per interpretare un ruolo. Anche in questo caso mi sono tuffato con la massima convinzione di voler essere un attore. Ho studiato recitazione, ballo, la storia del cinema e come dicevo prima solo oggi mi rendo conto che mi interessava il mezzo, il processo creativo dell’attore, non essere attore. Tutti questi mondi mi hanno dato molta disciplina e analisi; io come uno studente assetato di conoscenza ho assorbito il più possibile.

Chiudo il periodo romano, lascio Roma per Milano visto che nella mia indole sono stato sempre un nomade, le cose troppo ripetitive, stanziali mi annoiano. Milano con l’editoria, il mondo discografico e con l’Europa più vicina, mi dava un raggio d’azione più ampio.

Ogni passaggio che affrontavo nel mondo creativo era una conseguenza delle esperienze precedenti. Da disegnatore sono passato ad essere fotografo professionista, promotore e produttore di gruppi e cantanti perché la musica e i videoclip mi hanno sempre attratto, avevano molta affinità con mio linguaggio, poi negli anni Ottanta esplodeva il linguaggio audiovisivo della musica, è stata una rivoluzione per i creativi. Come dici nella tua domanda, ho collaborato con molte personalità della musica italiana e internazionale destreggiandomi con naturalezza ed abilità in questi contesti. Però ogni novità invecchiava velocemente nella mia testa e più collaboravo con editori, case discografiche e cantanti e più mi rendevo conto che c’era qualcosa che stava emergendo, un individuo, un’entità allora a me sconosciuta, che voleva nascere ed emergere per lasciare campo libero al mio daimon.

L’arte, o il contesto artistico erano ancora lontani dai miei interessi. Ma ho una data precisa in cui ricordo di aver fatto una scelta assoluta, la più importante della mia vita: il 1996. Non so perché, non so come mai, ma in quell’anno ho chiuso definitivamente con il mondo commerciale dell’industria cinematografica e musicale e i miei interessi sono stati totalmente deviati dal signor Robert Gligorov appena nato.

Insieme al mio nuovo amico e compagno d’avventure Carlo Benvenuto, abbiamo preso uno studio e cominciato a operare in un modo sempre più mirato e affine all’arte. Il confronto con le varie esperienze di artisti e di scenari in atto da tempo, a mia insaputa, nel mondo dell’arte mi hanno aperto una porta dopo un’altra di possibilità e questo media mi sfidava e mi stimolava. La tecnologia digitale all’epoca era poca, c’era il Paint-box (preistoria), la nuova tecnologia mi ha attratto da subito. Perché l’arte si è sempre evoluta nella novità grazie alla tecnica. Dall’affresco si passa alla tela, da quando i colori si potevano acquistare e non necessariamente più dover realizzare, da quando è nato il proiettore, da quando è nata, soprattutto la fotografia. Grazie a questa invenzione il mondo dell’arte cambia volto e senso e le nuove tecnologie come il digitale o oggi la A.I. non sono limitativi per l’artista, anzi sono un aspetto dell’evoluzione che forse l’artista maturo non riesce a domare o controllare ma le nuove generazioni lo utilizzano come un mezzo di supporto.

Mi è venuto naturale dare spazio alla tecnologia come la fotografia, piuttosto che la tanto adorata pittura (che ho sempre praticato come hobby e rare volte come oggetto da esporre). Ho sempre ascoltato il mio tempo: forse l’artista quando è troppo sul ragionamento, senso del fare, forse è anche un po’ troppo avanti per il suo tempo e verrà codificato solo in seguito. 

Ad un certo momento negli anni Novanta hai preferito concentrarti prevalentemente sull’arte visiva, prediligendo a mio avviso una ricerca che si muove in quella sottile linea di confine tra realtà e finzione, conduci lo spettatore in una dimensione, spesso molto forte, destabilizzante e a volte scioccante, che non risparmia certo anche la provocazione. Perché queste scelte?

Io opero, faccio, poi farò i conti con le opinioni e poi ovviamente, maturando, con gli anni hai una percezione più lucida del tuo fare arte. Non ho mai pensato a fare arte. Ho sempre considerato la mia giornata, la mia vita, un tutt’uno. Fare arte non ha orari: è un’esigenza vitale per ingannare la psiche, ingannare la paura della morte ed evitare un vuoto esistenziale con cui fare i conti. Ho sempre temuto il silenzio e i momenti morti.

Un progetto, un impegno, una devozione religiosa verso il media mi ha sempre dato forte motivazioni e devo dire che questa sensazione non si è ancora esaurita. Il mio immaginario che va dal teatrale al citazionismo e al sociale si è sempre intrecciato nella mia opera. Forse le mie origini slave hanno inciso sulla mia modalità espressiva. Questa cosa la vedo anche in Marina Abramovic: sono a volte performance estreme ma hanno sempre una messinscena come una fiction; non per questo meno vera, se poi aggiungiamo il digitale, come accennavo prima, il tutto si amalgama in un barocchismo contemporaneo. Ho sempre fatto fatica a sposare un’intuizione, o come si dice uno stile per la riconoscibilità, non riesco a riprendere opere del passato. È come se si fossero chiuse delle porte con quell’esperienza. Quest’aspetto fa parte di me e della mia modalità. Da sempre ritengo che l’artista è tale se ha un’intuizione interessante, forte ed è la sua modalità nel proporla che lo rende unico. Quindi, un’idea acquista senso se proposta nel tempo in cui si genera.