Nello studio di Agostino Arrivabene, dove il mito classico torna a vivere

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Da Milano dista solo cinquanta minuti, ma una volta giunti a Gradella di Pandino sembra di avere varcato una sorta di porta, di limen, spazio-temporale, quasi come nel noto film Non ci resta che piangere, straordinariamente interpretato da Begnini e Troisi.

Ci troviamo in provincia di Cremona, nel cuore della Pianura Padana, immersi nella natura, tra coltivazioni, alberi, aziende agricole e corsi d’acqua: è qui che Agostino Arrivabene dimora, poco distante dal paese dove egli ha aperto gli occhi per la prima volta.

Come è risaputo nella Pianura Padana la qualità dell’aria non è una delle migliori, tuttavia nell’atmosfera, nello specifico in quella cremonese, ci deve essere qualcosa di speciale, di creativo, estroso e fantasioso, se solo pensiamo ai grandi personaggi a cui ha dato i natali: Stradivari, Guarnieri, Amati, Monteverdi, Sofonisba Anguissola, e avvicinandosi ai tempi nostri, Piero Manzoni, Mina, Tognazzi o campioni dello sport come Cabrini e Vialli.

Eccoci giunti all’interno di una corte, in uno splendido casolare, dove ad accoglierci è lo stesso Arrivabene, che facendo gli onori di casa ci invita ad entrare.

In questi bellissimi spazi, Agostino ha ricreato lo studio e l’abitazione: un luogo surreale, dove vive in sintonia con le proprie passioni, una moderna Wunderkammer, una sorta di camera delle meraviglie, dove l’arte e la fascinazione dominano la scena.

È qui che ha inizio il nostro dialogo…

Ci troviamo all’interno della tua abitazione, che è anche il tuo studio, composto da numerosi ambienti, perché le stanze dove lavori sono molteplici. É un luogo fantastico, immaginifico, quasi sospeso nel tempo, ma parallelamente surreale: sembra attraverso il limen di varcare la soglia temporale. Mi ritornano alla mente quei luoghi straordinari che sono il Vittoriale di Gabriele D’Annunzio e la casa di Salvador Dalì a Port Ligat in Spagna. Sembra di entrare in un’enorme Wunderkmmer ed inoltrarsi attraverso quadri, sculture, oggetti rari di varie tipologie, elementi naturalistici, animali imbalsamati, elementi che un tempo venivano definiti naturalia e mirabilia. Da dove nasce questo interesse e perché?

Abito a Pandino oramai da diversi decenni, in origine fu questa una casa di passaggio in attesa di migrare in Inghilterra o nei paesi d’Europa del nord, ma poi, le mie radici lombarde hanno preso il sopravvento e sono rimasto in Italia. Ho sempre amato la vita agreste, in vecchie case immerse nei campi o in collina, il mio desiderio originario era avere un vecchio e storico cottage nella regione delle Coatsword in Inghilterra o nelle brughiere scozzesi.

Per assolvere in qualche modo questo desidero inesaudito per via di ragioni famigliari, ho supplito con una casa in campagna in una vecchia cascina del 1800 nel sobborgo di Pandino, un piccolo paesino formato solo da cascinali, una chiesa, e due piccole trattorie fra le belle cittadine di Crema e Lodi.

Era il luogo perfetto per me, dove poter rimanere isolato dalla città e da un mondo sempre più chiassoso e piuttosto involgarito in ogni suo aspetto.

La mia casa non è solo un piacevole ritiro nella solitudine, ma l’ho allestita secondo i miei desideri culturali più affini, sempre più attinenti ai miei interessi estetici e riadattata anche per contenere gli spazi del mio lavoro.

C’è l’abitazione vera e propria, il luogo del soggiorno quotidiano, dedicato ai pasti e quello del riposo, del salotto dove ricevere ospiti o dove rilassarmi fra le mie amate letture, sono ambienti che si compenetrano con i tre studi dove io lavoro, a tutto questo si aggiunge un’atmosfera da museo avendo alle pareti le mie opere, le installazioni di un’oggettistica estraniante e che ho sempre trattenuto per la mia collezione personale. Tutta la casa è un contenitore che serve ad amplificare ogni aspetto della mia persona e dell’artista che sono diventato.

I miei primi modelli abitativi sono state le grandi case alto borghesi dell’Inghilterra vittoriana, le case parigine del periodo decadente, i modelli stilistici voluti da Viollet-le-Duc, e le architetture neogotiche di Augustus Welby Northmore Pugin, a cui ho dedicato un dipinto in suo omaggio; le manifatture di William Morris, ed ovviamente il Vittoriale di Gabriele D’Annunzio; la casa museo di Palazzo Bagatti Valsecchi a Milano insieme alla casa museo Poldi Pezzoli, ed infine la casa museo di Gustave Moreau a Parigi, luogo per me sacro e di pellegrinaggio, infine tutto il periodo reggente di Re Umberto I di Savoia e lo stile neo-rinascimentale, di gusto cosi eclettico ed anacronistico che ne conseguì. Su quella scorta è nato il mio desiderio di avvicinarmi a questo strano gusto.

Vorrei brevemente ripercorrere la tua storia artistica, ma anche di vita, perciò ti chiederei come ti sei avvicinato all’arte e quali sono stati gli eventi che hanno scatenato questo Sturm und Drang, concepito come senso del sentimento, che come afferma Goethe “è tutto”, e il rimando all’antico, che spesso è una metafora per esplicare l’inquietudine e la voracità dell’uomo moderno che “di nulla si sazia”, ma anche la forza incommensurabile e creatrice della natura.

Io ritengo che l’arte debba essere anche un’estroflessione della vita dell’artista e dei suoi drammi; le opere d’arte nel Novecento slegatasi dalla competenza ecclesiale e poi da quella temporale hanno saputo diventare anche testimonianza esistenziale. Non esiste una storia del mio passato cosi chiara e che mi ha portato a dipingere, so solo che già da bambino e poi da ragazzo l‘urgenza di disegnare era fortissima, il desiderio di avere confronti con tutta la meravigliosa sfaccettatura della storia dell’arte era anch’essa preponderante. Io penso che tutto iniziò all’età di quattro anni quando mia madre morì improvvisamente, fu inevitabile collimare la morte con la parola abbandono, fu un evento tragico, forse anche poco consapevole; penso che la pittura e il disegno furono la migliore sutura per calmare le brucianti ferite dell’infanzia ed a salvarmi da uno shock tragico. La pittura e le immagini erano viatico di riconciliazione con mia madre, i primi lavori erano soprattutto immagini di treni che prendevano quota dal suolo verso viaggi celesti, su questi treni c’era sempre la piccola immagine di mia madre ammiccante da un finestrino del treno, nei campi sottostanti un bambino sempre rannicchiato o in gesto di guardare verso l’alto: erano lavori commuoventi che mi fecero vincere un mio premio già all’età di cinque anni.

La fiaba è stata il pretesto per portarmi verso un mondo di fiabe dove le eroine erano senza madre ma avevano una madrina protettrice, la figura magica della fata è stata la metafora per riportare in vita mia mamma ma in una dimensione di sogno. Poi arrivò la figura di una cugina, figlia di una sorella di mia madre che iniziò ad avvicinarsi con amore al destino mio e di mio fratello Andrea. Nel tempo Marika cosi si chiama, mi avvicinò ad altri racconti fiabeschi, mi portò un libro di Karoly Kerenyi sui miti (Miti e misteri, ndr), e lì avvenne la folgorazione. Il mito greco divenne il rituale per sottolineare in vari momenti di passaggio del mio vissuto e in tutto il periodo della mia adolescenza e da allora non mi ha mai più abbandonato.

Si è appena conclusa presso Palazzo dei Diamanti di Ferrara una tua importante antologica dal titolo “Thesauros”, con lavori che vanno dal 1985 ad oggi. Com’era nato questo tuo ultimo progetto e che cosa raccontava la mostra?

Ho sempre ritenuto Palazzo dei Diamanti un tempio, pertanto mi ritengo onorato d’essere stato presente con questa mostra a Palazzo dei Diamanti e sono grato a Vittorio Sgarbi per avermi invitato. La decisione di raccogliere quaranta opere per realizzare una mostra antologica che fossero esemplificative di circa quaranta anni di attività, dal 1985 al 2023, è stata fatta per mettere in luce l’ispirazione letteraria che ha caratterizzato il mio percorso di pittore. Il titolo “Thesauros” l’ho scelto per omaggiare i tesauroj della Grecia antica e che mi avevano suggestionato a Delfi, tempietti dove venivano raccolti oggetti d’arte raffinatissimi secondo i racconti di Pausania, doni che erano offertori al dio Apollo.

La mostra era imperniata su un cannocchiale prospettico dato da due opere poste tra la prima sala e l’ultima, una del 1997, Lucifero, e l’altra eseguita nel 2023, Erotomachia infera, un telero di grandi dimensioni che, per la prima volta ho esposto al pubblico, parte di un corpus di opere realizzate dal 2019 ad oggi, dedicate a Dante Alighieri ed alla sua Divina Commedia. Tale Progetto è tutt’ora inedito. Su questo asse dove Lucifero contempla e domina il peccato di lussuria si imperniavano come opere satellite dipinti ed oggetti di mirabilia memori delle antiche wunderkammer.

Le opere esposte in “Thesauros” giungono da tutto il mio mondo poetico, quello ispirato dalla mitologia greca con alcuni esempi di cicli interi, e qua presenti in sede espositiva, come quello Eleusino, o quello ispirato ad un paesaggio che mi ha ossessionato per anni proveniente da una pala d’altare di Ercole de Roberti: la Pala di Santa Maria in Porto detta anche Pala Portuense ora a Brera. Il paesaggio che si trova sotto il podio dove la vergine è assisa, è una visione immaginifica della città di Ravenna durante un episodio miracoloso.

Il trittico delle due morti invece è per me un’opera molto importante perché rappresenta un momento di grande consapevolezza relativo al mio rapporto con la pittura e col sistema dell’arte contemporanea.

Sei credente, credi in Dio?

Penso che la dimensione di catarsi e di sacralità e di un senso del sacro mi siano giunte sin dall’infanzia, sin da subito ho dovuto confrontarmi con l’abbandono quando a soli quattro anni vidi mia madre morire. Forse è di allora il desiderio di riconnettere la mia vita ad un mondo ignoto, un invisibile assassino che mi aveva sottratto l’affetto chi mi diede la vita. Eschilo lo ha affermato in una sua opera tragica, c’è un suo pensiero che diventa una risonanza potentissima in me: “To Páthei Máthos”, la verità la si conosce solo con il dolore e il suo pathos.

Oltre alla tua importante abilità, perizia tecnico-realizzativa, all’indagine che prevede uno studio approfondito delle tematiche affrontate, a mio avviso un altro aspetto importante è la qualità del risultato dal punto di vista prettamente pittorico: l’utilizzo della materia, del pigmento. I colori di cui ti servi li realizzi direttamente tu?

Se nel corso degli anni sono arrivato a paludarmi di appellativi quali pontifex maximum, è perché l‘intento era quello di agevolare il dialogo con tutto il percorso dell’arte del passato e attivare una militanza di recupero di alcuni codici e il loro dialogo con il mio tempo e ricongiungere anche ogni aspetto della theknè.

Penso di esserci riuscito, soprattutto per alcuni risultati dove la pittura a volte è decostruita attraverso le abrasioni di sedimentazioni stratigrafiche, oppure essere fusa e trasformata attraverso la combustione per mezzo del fuoco. Sono arrivato anche a cambiare i supporti al disegno, la carta è stata sostituita dal tessuto, la seta per esempio o la pelle d’uovo che viene utilizzata per le imbottiture di piumini d’oca.

Dal 2014 sono arrivato su questo tracciato tecnico ad utilizzare i legni fossili pietrificati del cretaceo o del mesozoico, che su superfici di forme minerali ed astratte avveniva una ricucitura delle astrazioni minerali per effetto pareidolico (processo psichico che porta ad ricondurre forme casuali e naturali a immagini note riconducibili al reale, ndr).

La tavolozza nel corso del tempo è diventata più virtuosa soprattutto riducendone la gamma, ed arrivando ad utilizzare anche solo 3 o 4 colori, basandomi sulla tradizione greca e latina, ho utilizzato una gamma cromatica ridotta per rendere più fluida l’esecuzione e scoprire effetti colorici ben più eleganti nella loro sobrietà anziché utilizzare una palette chiassosa.

Attualmente ho lasciato in cantina la pittura ad olio, ma è solo una fase, sono certo che riprenderò ancora e nuovamente con la pittura ad olio; ora sto favorendo la tempera grassa e l‘encausto a freddo.

Tra le tematiche ricorrenti del tuo lavoro, ritroviamo molto di frequente un rimando all’antichità, soprattutto alla civiltà dell’antica Grecia e quindi la narrazione del Mito. Mi viene in mente quello straordinario testo di Nietzsche, che è La nascita della tragedia, nella quale il grande filosofo sostiene che senza mito ogni cultura perde la sua sana e creativa forza di natura e che solo un orizzonte determinato da miti può tenere unito un intero movimento di cultura. Nietzsche poi ancora ci dice che solo dal mito le forze della fantasia e del sogno vengono salvate dal loro vagare senza scelta. Anche per te il Mito riveste caratteristiche e significati molto importanti?

È stata la lettura di Károly Kerényi quando avevo circa 16 anni ad avvicinarmi al mito, mia cugina Marika che era insegnante di lettere antiche e moderne fu la mia prima e più importante educatrice, fu lei ad immergermi negli studi della mitologia e cultura greca. Arrivavo in quel tempo da altri interessi, quelle di miti nordici o di racconti sorti durante l’epoca vittoriana inerenti le leggende gaeliche; ma approfondendo il mito greco ho raggiunto un nuovo slancio.

Il mito diventava per me metafora di dramma, la vita e gli avvenimenti salienti di un essere umano fatti di rituali, di iniziazione giovanile, di sessualità, o di morte e rinascita, sono molto più immediati, il mito tendenzialmente ci racconta queste dinamiche del destino umano.

Gli accadimenti della mia vita potrebbero essere paragonati simbolicamente anche ai gradini di salita e discesa tra abisso infero ed estasi paradisiache che hanno reso più acuto il mio sguardo sulla realtà. Dante Alighieri con la Divina Commedia ha testimoniato queste tensioni umane tra grazia e dannazione.

Ritengo che solo in una soglia tesa tra questi opposti l’artista possa intravedere quell’equilibrio a cui tende e a cui solo con il “prodotto” poetico darà giusta testimonianza.

Ade e Persefone diventarono i miei dei tutelari, le icone di un dolore bruciante che necessitava di essere sopito. Queste immagini mitiche, e le epiche personali, sono diventate i miei simulacri che  identificano il metro di un percorso sia di vita che di espressione poetica.

Come spesso ti viene riconosciuto, e come anche tu hai più volte confermato nei tuoi dipinti, si colgono gli echi dei grandi maestri come Jan van Eyck, Leonardo, Michelangelo, Albrecht Dürer, Rembrandt. Ma se dovessi sceglierne uno, quello che ritieni essere stato per te più importante?

Leonardo da Vinci fu la scintilla d‘innesco sin da ragazzo, fu la sua pittura e il suo disegno ad avvicinarmi alla disciplina pittorica, negli anni sono corsi in mio aiuto altri grandi maestri come tu mi ricordi, ma fu recentemente Michelangelo Buonarroti ad avvicinarmi preparandomi più che tecnicamente la sua maestria, ma avvicinandomi alla sua esperienza di vita d’artista, la sua consapevolezza umana e il suo modo di affrontare il destino che mi colpirono, fu come riconoscermi in un portato esistenziale che poteva guidarmi in ambiti di senso ben più necessari ed urgenti per la mia crescita d’artista e di uomo.

Ci spiegheresti la fase realizzativa del tuo lavoro? Come nascono tecnicamente le tue opere?

Non esiste una sola fase di lavoro ma molteplici metodi e strade per raggiungere una buona immagine e che viene sostenuta da radici significanti. Spesso il taccuino d’appunti o di viaggio come spesso veniva identificato è una sequenza di idee in germe, una sorta di serra dove posso attivare germinazioni di idee, dove vengono stivati progetti e suggestioni, inneschi veri e propri per le opere, è infine anche un diario temporale dove sono registrati anche momenti salienti della mia vita. A volte, però, un’immagine sorge quasi per medianicità miracolosa, basta una visione nelle forme astratte di qualunque cosa, oggetto o forma in natura o addirittura in altre opere pittoriche di maestri antichi o di autori contemporanei e in spazi infinitesimi di quelle opere pittoriche. Diverse opere spesso non hanno alcuno studio di preparazione, altre invece sì, oppure alcune vengono dipinte su strutture morbide come le plastiche e poi vengono reinnestate per pressione su tela o sulla tavola e poi strappate, questa operazione mi permette di rompere l’immagine, allontanarla in uno spazio astratto ed indefinito renderla sfocata come vista per mezzo della miopia, ma soprattutto smembrare il gesto delle mie pennellate ricreandole sotto forma di altri pattern per mezzo dello strappo , astraendo ancor più il gesto.

Chiuderei questa nostra conversazione chiedendoti di che cosa ti stai occupando attualmente. Per esempio, so che spesso collabori anche con il mondo del teatro, di cui realizzi le scenografie. Ci racconti queste esperienze?

Dopo l’esperienza di Samson et Dalila per l‘Operà di Montecarlo nel 2019, dove fui invitato come direttore artistico e creativo dei costumi e delle scenografie, un’altra esperienza si è presentata per immergermi ancora una volta nell’affascinate mondo del teatro. In questo momento sto progettando i costumi per un’opera lirica per la stagione teatrale 2024 ma per discrezione non posso dare ulteriori dettagli…

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