“Legami di resistenza”, nell’unione c’è la rabbia

Reggiseni, pantaloni, gonne, vestiti gialli, rossi, a fiori o a pois costellano la facciata del Palazzo Fernandez e Santa Rosalia di Palermo. In una via centrale della città siciliana, dietro la maestosa Cattedrale si colloca la sede dell’Accademia di Belle arti di Palermo. Impossibile, passando per via Papireto, non notare il tripudio inquieto, e perché no, disturbante di colori e fantasie che svettano, intente a non tacere, sui loro prospetti. Disturbare è proprio l’obiettivo, non passare inosservati: fare rumore. «Legami di resistenza» è un’urgente operazione artistica collettiva. È un lavoro effimero, nato dall’idea progettuale della professoressa di Storia dell’arte contemporanea Emilia Valenza, che accogliendo le richieste collettive degli studenti di non rimanere fermi di fronte all’ennesima vittima di femminicidio, decide di mobilitarsi per dire qualcosa e farlo ad alta voce. Si tratta di un’installazione artistica nata spontaneamente e, ancora, urgentemente dalla volontà comune di opporsi alla violenza di genere da parte dei docenti e degli studenti dell’Accademia di Belle arti di Palermo.

Dinnanzi alle dinamiche malsane di una cultura patriarcale che tuttora opprime e, spesso, sopprime le donne, il mondo dell’arte decide di sfuggire dal clima di vigliacca omertà, tentando di prendere una posizione a sostegno di una lotta che dovrebbe riguardare non soltanto le donne, ma l’umanità tutta. È con questa finalità che l’Accademia di Belle arti di Palermo, i suoi professori, i suoi studenti e gli artisti hanno deciso di rendere evidente la loro presa di posizione. Il 25 e il 26 novembre, in occasione della giornata contro la violenza sulle donne, la facciata dello storico palazzo Fernandez, vecchia sede del Regio Istituto di Belle Arti e oggi attuale sede dei corsi dell’accademia, della direzione, della biblioteca e del Fondo storico, e il dirimpettaio palazzo di Santa Rosalia, si ricoprono di decine e decine di vesti, «un sudario di vestiti», come afferma la professoressa Valenza.

A demarcare la collettività del gesto, l’urgenza dell’azione è stato l’immediato lavoro di passaparola tra gli autori dell’installazione per procurare gli abiti da utilizzare e il clima di lavoro relazionale necessario per la realizzazione del progetto. L’ aula della consulta studentesca si è trasformata in un “laboratorio di cucito attivista”, a servizio di un messaggio che doveva essere visibile, esterno rispetto alle mura dell’accademia. Il titolo del progetto collettivo: “Legami di resistenza” è indicativo di un bisogno: quello di resistere e di farlo insieme. Una collettività che reagisce a un’insopportabile ingiustizia: quella di tacere.«Ci è sembrato molto indicativo di una situazione divenuta oramai insopportabile. I legami uniscono, sono simbolo di condivisione, difesa collettiva», scrive Valenza. Resistenza, però non significa solo respingere, difendersi, ma gli autori mirano ad avvertire: «resistere è opporsi», è rigettare, combattere contro una realtà ancora, purtroppo patriarcale e misogina, che si sente in diritto di controllare e opinare sul corpo della donna, sulle sue decisioni e perfino sulla sua vita.

L’immediato consenso del direttore Umberto De Paola, il sostegno dei colleghi docenti, tra cui Fausto Gristina che si è occupato della comunicazione visiva, hanno permesso di vestire le facciate dei palazzi di questo triste sudario, un promemoria visivo, doloroso ma necessario. Il palazzo tripartito presenta nella parte centrale, aggettante, del primo piano una grande finestra in cui è stata allestita la composizione di vestiti combinati in accostamenti cromatici accesi, fantasie variegate, tessuti eterogenei installati su un telaio, non a caso, di colore rosso. Il palazzo di Santa Rosalia, invece, presenta degli indumenti, pantaloni e magliette le cui maniche o zampe sono legate tra loro, come corde per fuggiaschi, attaccate alle grate, in ferro, dei balconi della sede: legami di resistenza.

L’intento è chiaro: denunciare la violenza, e l’accademia lo fa con l’evidenza, con crudezza. L’installazione è una nitida dimostrazione della violenza subita, non inflitta certamente. Vestiti esamini, vuoti, sgualciti. Sorgono, dunque, immediate le domande: dove sono i corpi che li hanno abitati? Dove sono le donne che li hanno indossati? Perché sono qui?

Anche l’abito diventa evidente denuncia dell’arbitrarietà della violenza, ancorata a retaggi medievali e primitivi, come la tendenza sempre più frequente di colpevolizzare la vittima, di renderla responsabile degli abusi, delle violenze, dei catcalling subiti a causa della provocatorietà o meno del suo abbigliamento. Come se l’indossare una gonna corta riflettesse la disponibilità di chi la indossa. E ancora i vestiti sono evidenti tracce di corpi, ma non vi sono corpi in carne ed ossa. Quel corpo che per Simone de Beauvoir è il principale veicolo di esperienza delle donne e soprattutto di formazione e definizione identitaria e che per Foucault è sede del potere, viene cancellato dal retaggio patriarcale della società mummificata nel maschilismo e nella misoginia. Gli abiti diventano surrogato della presenza delle donne in un contesto sociale da cui esse sono state sradicate, private della loro stessa presenza. È una modalità di riscrittura, di recupero della loro partecipazione, del loro esserci.

Il palazzo diviene dunque una bacheca per ricordare, le vite, i corpi, le donne che il patriarcato ha distrutto. È un’assenza presente, quella di cui ricostruiscono la genealogia gli studenti dell’accademia. È la dichiarazione di un ritorno effimero ma rumoroso. L’indicalità peirciana insita nell’intervento artistico mira a sottolineare la presenza laddove essa in realtà è negata. In questo, appare determinante la prossimità con l’idea di impronta corporea, di segno indicale, di riconquista del corpo e dunque della propria identità insita nelle operazioni delle più grandi artiste femministe della storia dell’arte, Ana Mendieta, Carolee Schneeman, Gina Pane, Hannah Wilke, Cindy Sherman, Shirin Neshat, Regina José Galindo, per citarne alcune. L’idea di riconquista del proprio corpo fino ad allora negato, sottoposto al male gaze, diviene tratto determinante delle ricerche artistiche contemporanee, soprattutto negli anni dell’insorgere della seconda ondata di femminismo. La corporeità combattuta e vissuta come territorio dell’altro è uno dei principi che ha mosso l’operazione artistica collettiva palermitana.

Quello dell’Accademia di belle arti di Palermo, è un messaggio che si coglie forte e chiaro. È una dichiarazione gridata, non sussurrata, da un’istituzione che fermamente rifiuta e combatte per cambiare quest’ingestibile situazione di violenza. «Per tale ragione, pensiamo che l’Accademia debba essere presente in questo 25 novembre, con i propri linguaggi e con la forza del messaggio artistico». E il messaggio artistico e sociale arriva deciso: opporsi non in silenzio, ma facendo più rumore.

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