Il fascino discreto di essere Salvador Dalì. Questo è Daaaaaali!, l’antibiopic di Quentin Dupieux

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Dopo aver convinto con la sua commedia Mandibules, opera che esercita ed esprime ogni demenzialità e dissennata irrazionalità, il regista francese Quentin Dupieux torna sul grande schermo con Daaaaaali! per raccontare in fin dei conti quanto il suo terreno preferito sia quello delirante, ironico, grottesco.

Se qualcuno si aspetta un biopic sensibile e onesto su Salvador Dalì lo diciamo subito: ogni aspettativa verrà infranta. L’opera del regista francese fa essenzialmente una cosa, una cosa detonante: esprime l’impossibilità di raccontare la vita, le opere e la storia di Salvador Dalì. Partendo da questo assunto, il film ha una trama piuttosto semplice da cui poi si sviluppano, e si sfilacciano, le architetture surreali della storia: una giornalista (Anaïs Demoustier) vuole realizzare un’intervista al pittore spagnolo Salvador Dalì (Gilles Lellouche, Jonathan Cohen, Pio Marmaï) per poi procedere nella realizzazione di un film su di lui. Ma ad ogni incontro succede qualcosa che lo convince a declinare l’intervista: lui scappa e l’intervista viene rimandata.

L’opera di Dupieux prende la sua struttura drammatica da “Il fascino discreto della borghesia” di Buñuel, e quel che fa è piegare costantemente le regole della realtà, intrecciando sogni dentro sogni e film dentro film per disorientarci, attraverso un sublime vortice di gag intelligenti e pura gioia per il nonsense, con personaggi eccentrici e dettagliate idee visive.

Salvador Dalì in questo biopic non è il protagonista ma è più un distrattore, un suggeritore dietro le quinte, l’epicentro retorico su cui si poggia la storia, l’espediente per farla procedere: sono assenti le sue paturnie, le sue sofferenze, l’accademia, la fascinazione, ma è tutto poggiato sulla sua capacità comunicativa, su come la sua immagine aggettante sia in realtà sulla soglia tra presenza e assenza. Quest’opera vive della sua contraddizione più inclita: osservare un uomo che non vuole essere osservato, che al contrario ti osserva, ti scruta e ribalta lo stesso ruolo che distilla il mezzo filmico, in cui è lo spettatore ad assistere al processo visivo della storia.

È un loop continuo di scene che si ripetono, opere che prendono forma e vita nella pellicola, un mondo in cui i pianoforti sono fontane, in cui i sogni dettano il tempo del reale, e le scene guardano alla sua arte con piccoli riferimenti sottili: un teschio, un paesaggio, una firma compaiono e partecipano all’economia del film. Quest’opera è come un subconscio pulsante che rilascia immagini, suggestioni, considerazioni, anche assurde dell’artista spagnolo, e non teme di farlo sembrare anche ridicolo, un po’ bigotto, uno degli uomini forse più pieni di sé che potesse esistere, che parla di sé solo in terza persona, che non ha attenzioni se non per se stesso, e che invoca solo il proprio genio. Il film è sia un omaggio a Dalí, ispirato al cinema di Buñuel, ma è anche un omaggio al cinema dei Monty Python, ed è in fin dei conti un’opera che rifiuta di prendersi sul serio.

Daaaaaali! non è affatto un film su un Salvador Dalí, ma su tanti Salvador Dalí: ad interpretare l’artista spagnolo sono diversi attori che si contendono la sua presenza scenica, uno è anziano e si muove su una sedia a rotelle, uno è piuttosto corpulento e ha perso alcuni denti, un altro è particolarmente enfatico e esagera volutamente nell’imitare l’accento dell’artista. A volte Salvador Dalí cambia nel bel mezzo della scena o addirittura ne compaiono due contemporaneamente.

Un tipico film di Dupieux che raggiunge un nuovo livello di demenzialità senza perdere mai l’intuizione e la sagacia. Guardando il film abbiamo davanti un orizzonte sconfinato di senso e significato: potrebbe essere tutto parte di un sogno raccontato a Dalí durante una cena, o potrebbe essere il ricordo di un prete che spara o viene sparato da un cowboy, potrebbe essere l’artista spagnolo che si ritrova intrappolato nelle sabbie mobili del tempo, incapace di sfuggire alla sua immaginazione.

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